Ho ritrovato una parte delle mie radici nella cura degli alveari. Intervista esclusiva con l’autore e apicoltore Francesco Colafemmina.

Intervista di Tiziano Thomas Dossena

Francesco Colafemmina è nato a Roma nel 1980. Laureato in filologia  classica ha frequentato la scuola di giornalismo della RAI per poi dedicarsi  all’attività imprenditoriale nel settore dell’energia e dell’agricoltura  sostenibile. I suoi interessi spaziano dal mondo classico all’arte e alla  spiritualità. Continua  ad associare l’attività pubblicistica al proprio impegno verso l’ambiente,  attraverso la sua azienda di apicoltura biologica. 

L’Idea Magazine: Buongiono Francesco. Tu possiedi un azienda di apicoltura biologica.Come sei arrivato dalla frequentazione della scuola di giornalismo della RAI all’attività imprenditoriale nel settore dell’energia e dell’agricoltura sostenibile?
Francesco Colafemmina: Buongiorno a voi, e grazie per il vostro interesse. È certamente una lunga storia, ma diciamo in premessa che in un mondo sempre più analitico, dove la specializzazione fa l’individuo, continuo a professare l’ideale rinascimentale dell’uomo che al mattino cura i suoi campi, il pomeriggio discute della politica del suo paese, e a sera si immerge negli studi. Qualcosa del genere… Sono sempre stato refrattario agli ordini di scuderia, alle obbedienze e ai conformismi, perciò ho preferito dedicarmi alla consulenza aziendale in una fase molto dinamica della mia vita, quando viaggiavo di qua e di là, esplorando una settimana le terre della Tessaglia per realizzare impianti fotovoltaici, quella successiva le colline attorno a Costanza sul Mar Nero per issare anemometri per l’eolico, e l’altra ancora volando nell’isola di Terranova per un convegno sul trasporto del gas compresso. Dopo diversi anni mi sono reso conto che i paesaggi, i campi ora fioriti ora arati esercitavano su di me un profondo richiamo alle origini, alla civiltà dei miei nonni. La scoperta delle api, della loro società ordinata e coesa, è stata poi una vera e propria rivelazione. Ho lasciato tutto il resto e ho ritrovato una parte delle mie radici nella cura degli alveari.

L’Idea MagazineNel 2017, per ‘Apinsieme-Rivista Nazionale di Apicoltura’, hai pubblicato “Le Api e Noi”, una approfondita storia sociale delle api e del miele. Ti affascinano molto le api?
Francesco Colafemmina: Sono creature meravigliose, fatte di perfezione. Alle volte mi capita di contemplarne una ferma sulla mia mano per un’improvvisa esigenza di riposo. La osservo e rifletto su quanto l’essere umano sia per molti versi una creatura irrisolta, imperfetta, spesso una minaccia per se stesso e per le altre creature. L’ape no. L’ape è l’emblema di una intelligenza superiore che anima il cielo e la terra. E infatti questo piccolo insetto racchiude in sé il mistero di entrambi i mondi, del sole che trae a sé i fiori, della terra che li nutre. E realizza un prodotto unico, straordinario, come il miele, dolce sintesi di estati e primavere.

L’Idea Magazine: Oltre a ciò, tu continui con la tua attività di giornalista pubblicista e, chiaramente, di autore. Essendo laureato in filologiaClassica, il tuo libro del 2007, “Dialoghi con un Persiano di Manuele II Paleologo” mi sembra tratti di un argomento ben mirato. Potresti parlarcene?
Francesco Colafemmina: In uno dei miei tanti viaggi in Grecia, quando esisteva ancora Alitalia e distribuiva i quotidiani in volo, mi capitò fra le mani una copia del Corriere della Sera che riferiva di una lectio magistralis di papa Benedetto XVI a Ratisbona nella quale il grande teologo rimarcava come le radici del Cristianesimo affondassero anche nell’ellenismo e citava questi sconosciuti dialoghi dell’imperatore bizantino Manuele II Paleologo. Appena misi piede a terra chiamai un mio amico che lavorava per Rubbettino e gli proposi di pubblicare una traduzione inedita di quei dialoghi. Fu una esperienza entusiasmante. Benedetto XVI richiamava, sulla scorta di Manuele II, la dimensione di intima convinzione spirituale racchiusa nella conversione: opera del cuore e della ragione, non della costrizione o della spada. L’imperatore bizantino era all’epoca dei suoi dialoghi ostaggio del Sultano e discettava di religione con un dotto musulmano persiano, ma non aveva difficoltà nel sottolineare le storture di una religione imposta con la violenza e la sottomissione. All’epoca la prolusione del papa suscitò aspre critiche ma anche numerosi consensi nello stesso mondo musulmano. Tuttavia, a distanza di quattordici anni da quel momento, sembra che tutto sia finito nel dimenticatoio, e non perché gli eccessi del fondamentalismo siano spariti, ma perché il nostro mondo sembra aver sostituito ormai la fede in una religione con i tanti talismani tecnologici che ingombrano le nostre esistenze, e le plasmano costringendole a tenere gli occhi rivolti verso il basso, verso uno schermo, sicché la fede sembra svanire in una vaga memoria del passato. Gli antichi dicevano: motus in fine velocior. Un’accelerazione terminale della nostra civiltà.

L’Idea Magazine: Trovi difficoltà a gestire l’aspetto imprenditoriale e ritenere la tua attività di scrittore oppure essere immerso nella natura ti aiuta a creare ancor più?
Francesco Colafemmina: Certamente aiuta a riflettere. L’apicoltura è mestiere solitario e anarcoide, simile alla pastorizia per molti versi. Chiaramente nella fase produttiva, da marzo a luglio, è molto difficile combinare le due cose, fra viaggi notturni con le api alla ricerca di nuovi pascoli, e mattutine visite agli alveari, posa e ritiro dei melari, smielatura, etc. Tuttavia quei mesi sono come un lievito. Qualcosa matura dentro, mentre senti il vento sul viso, mentre sudi sotto il sole, mentre aggrotti la fronte per una puntura inaspettata. Ma la scrittura non è un mestiere, è una passione – per ritornare all’uomo rinascimentale. Per certi versi anche l’apicoltura lo è. Quindi le cose sono molto più intrecciate di quanto possa sembrare.

L’Idea Magazine: Hai seguito nel 2010 con l’inchiesta artistico-giornalistica “Il Mistero della chiesa di San Pio”. Di che mistero si tratta?
Francesco Colafemmina: È il mistero della simbologia “esoterica” di molte opere d’arte e d’architettura sacra che non nascono in un contesto religioso, ma laico o addirittura anticattolico.  Per alcuni anni ho gestito un blog di successo dedicato all’arte e all’architettura sacra. Una esigenza nata a partire da esperienze di personale orrore dinanzi a chiese che sembrano hangar o opere d’arte sacra che sembrano caricature dell’arte. Il santuario di San Pio a San Giovanni Rotondo, realizzato dall’archistar Renzo Piano, mi parve un esempio straordinario di questo corto circuito fra committente ed artista/architetto, che altera in maniera definitiva il significato di uno spazio o di un’opera che dovrebbero invitare alla preghiera e che in realtà assumono i tratti individualistici e micragnosi delle laicissime forme d’arte e architettura contemporanee. Ma anche qui il vento è cambiato da un giorno all’altro. E la confusione è cresciuta così tanto che un giorno ho deciso di cancellare per sempre il blog. Ne resta sostanzialmente questo libro inchiesta, quale frutto più maturo.

L’Idea Magazine: Sempre stando nell’era classica, hai anche pubblicato “Storia del Matrimonio nella Grecia classica”. Non mi sarei mai immaginato che un soggetto tale potesse avere diramazioni sufficienti per un libro… Come ti è sorta l’idea per il libro e quanta ricerca hai dovuto fare al proposito?
Francesco Colafemmina: Perché ci sono numerosissimi pregiudizi a riguardo. Pregiudizi contemporanei sui costumi sessuali degli antichi e sulla creazione “religiosa” del vincolo matrimoniale. In realtà, se scaviamo nel passato, scopriamo che talune istituzioni fondamentali come il matrimonio sono radicate nella civiltà greco-romana, con legami simbolici fortissimi e tuttora operanti, come il velo o l’anello.  E i costumi degli antichi non erano poi così rivoluzionari come si tende a pensare. La libertà sessuale era riservata ad una ristretta cerchia aristocratica, la stessa che la accreditava attraverso la letteratura o la filosofia. Il popolo, la massa anonima, era spesso molto più bigotta di quanto si possa immaginare. D’altro canto è questo uno dei segni caratteristici delle civiltà contadine.

L’Idea Magazine: “La Democrazia di AteneStoria di un mito” è il tuo libro del 2020. Intende essere un punto di riferimento per chi studia la storia della democrazia o della Grecia antica?
Francesco Colafemmina: Non direi, non ho simili pretese. Ma di sicuro non esisteva in Italia un testo che ricostruisse le origini e lo sviluppo della democrazia ateniese seguendo un po’ le tracce della grande scuola elitista italiana (quella per intenderci di Mosca, Pareto e Michels). L’assunto di fondo è che il sistema democratico – cosa in generale condivisa dagli storici – non fu mai una creazione dal basso, ma una composizione di interessi elitari. Dalla mia analisi emerge inoltre che le élites che “inventarono” la democrazia ateniese erano élites ribelli rispetto all’aristocrazia terriera classica. Permeate dallo scetticismo e dal razionalismo della sofistica, in un rapporto osmotico con la cultura del grande antagonista degli Elleni, l’impero Persiano, strutturarono una forma politica creativa e in perpetuo divenire, ma assai meno stabile e “democratica” di quanto possa sembrarci. Così anche oggi che viviamo in democrazie “formali” non possiamo accontentarci di una formula, di un meccanismo apparentemente in grado di rappresentare i cittadini, perché oggi tutte le democrazie occidentali sono minacciate dalla tecnica, da nuovi pervasivi metodi di controllo che limitano o sono in grado di limitare le nostre libertà fondamentali. Così lo studio del passato e delle sue contraddizioni può aiutarci a trovare una via per rimettere in equilibrio una pericolante struttura democratica, sempre più inclinata verso nuove tirannidi.

Il 14 gennaio del 1506 l’incontro con il Laocoonte trasformò Michelangelo in nuovo Enea. Prese su di sé l’eredità dell’antico e la tradusse in una forza nuova, talmente avanzata da confondere i suoi contemporanei. ENIGMA LACCOONTE analizza tutti gli ingranaggi di questa intricata vicenda, ne ricostruisce il contesto storico e culturale, richiamando la dimensione simbolica del Laocoonte e il suo messaggio spirituale e politico.

L’Idea Magazine: “Enigma Lacoonte” è il tuo ultimo libro, che possiamo definire un “giallo artistico”… Pensi di pubblicare anche una versione in inglese?
Francesco Colafemmina: Al momento non è prevista una traduzione, ma sarebbe certamente un valido strumento per ampliare la discussione sulle diverse questioni ancora aperte relative al Laocoonte vaticano.

L’Idea Magazine: Qual è il personaggio (o quali sono i personaggi) del passato che ti affascina(no) di più?
Francesco Colafemmina: Ve ne sono di innumerevoli. Chiunque ami la storia e la lettura per certi versi fa come Zenone di Cizico. Il grande filosofo stoico era in realtà un mercante di origini fenicie. Un giorno perse il suo carico di porpora in un naufragio, mentre lo aspettava nel porto di Atene. Così, decise di farsi indirizzare nella sua vita dall’Oracolo delfico. E la Pizia gli disse soltanto: “mettiti in comunicazione con i morti”. Con questo intendeva indicargli la riscoperta dei grandi sapienti del passato. Per certi versi ognuno di noi sa che il passato è un luogo abitato da intere comunità di amici. Ricordo ancora il mio professore di letteratura cristiana antica chiamare Omero “nonno” e Virgilio “zio”, come se fossero tutti membri di una nostra intima famiglia spirituale.

L’Idea Magazine: Nel 2011 hai anche pubblicato il tuo primo romanzo, “La Serpe fra gli ulivi”.  Dai libri di soggetto storico o eco-biologico, ambedue soggetti pertinenti ai tuoi studi e attività imprenditoriali, sei anche arrivato al romanzo. Che cosa ti ha spinto a scriverlo?  Qual è la trama?
Francesco Colafemmina: È un thriller sui generis ambientato in Puglia, scritto quando la Puglia si proiettava come regione del turismo e delle tradizioni, mentre in realtà sotto questa patina dorata si nascondeva spesso un mondo di corruzione e mafia, di droga e “allegra” imprenditoria. La Serpe fra gli Ulivi è un racconto di un microcosmo ancora molto attuale. E tra l’altro contiene una “profezia”: quella dell’elezione del papa latinoamericano…

L’Idea Magazine: Quest’anno è attesa la pubblicazione del tuo secondo romanzo, “Con lo stesso sguardo”. Di che cosa tratta?
Francesco Colafemmina: In realtà “Con lo stesso sguardo” uscirà forse nel 2022. A breve è invece attesa l’uscita di un altro romanzo, “La Guerra non è finita”. Un romanzo distopico che narra le vicende di una generazione di trentenni che improvvisamente, venuti a contatto con oggetti appartenuti ai loro nonni, iniziano a sognarli. E questi sogni si traducono in una rivoluzione, una “rivolta contro il mondo moderno”. Usciranno dalla gabbia del fatalismo, per accendere la fiammella della speranza.

L’Idea MagazineChi è lo scrittore o scrittrice al quale senti più affinità? E quale pensi ti abbia influenzato di più?
Francesco Colafemmina: Indubbiamente Dino Buzzati, scrittore che amo più di ogni altro, italiano e straniero. Ma oltre Buzzati ce ne sono molti altri, come ad esempio lo sconosciuto ai più Marcello Gallian, straordinario autore di romanzi dalle tonalità decadenti e a tratti surrealiste nel pieno degli anni ’30. E poi c’è la mia passione per la letteratura greca moderna, da Papadiamandis a Myrivilis, passando per poeti come Karyotakis e Sarandaris.

COLAFEMMINA SULLA COPERTINA DELLA RIVISTA “VATICAN”

L’Idea Magazine: Hai altri progetti letterari in lavorazione?
Francesco Colafemmina: A marzo per i tipi di Settecolori sarà pubblicata la mia traduzione di un capolavoro della letteratura neogreca, ‘Il Numero 31328” di Ilias Venezis. Un omaggio ai greci dell’Asia Minore vittime del genocidio del 1922. Un’opera piena di tristezza, intrisa di crudeltà, e nello stesso tempo carica di nostalgia e tenerezza che viene per la prima volta proposta ai lettori italiani dal 1931, anno della sua prima pubblicazione.

L’Idea Magazine: Qual è il libro scritto da te con cui ti identifichi di più, e perché?
Francesco Colafemmina: Una bella domanda! Certamente i romanzi sono i luoghi della scrittura nei quali si racconta molto di sé, e si è più liberi di lasciare tracce che poi il lettore dovrà seguire.

Alle volte la solitudine può essere una opportunità.

L’Idea Magazine: Si parla di ‘sindrome da isolamento’ causata da Covid. Tu ne hai risentito?
Francesco Colafemmina: Grazie alle api ho sofferto poco di questa sindrome. La libertà di movimento ha permesso all’apicoltore di continuare indisturbato i propri spostamenti notturni di alveari, di colloquiare con la natura e di impegnare all’aria aperta i propri giorni. Un grande astrologo francese che nel 1993 predisse la pandemia, André Barbault, parlava tuttavia in relazione al 2020 di un momento di grande “introspezione” dell’uomo. Alle volte la solitudine può essere una opportunità. Mi rendo tuttavia conto che la solitudine forzata sia stata per molti di noi soltanto uno spreco, condita com’era da angosce, incertezze e paure costantemente alimentate da ogni mezzo di comunicazione. Il fatalismo ci avvince, e la speranza si rifugia nel sogno.

L’Idea Magazine: Se tu avessi l’opportunità di parlare con un individuo del passato, chi sarebbe e che cosa chiederesti?
Francesco Colafemmina: Mi piacerebbe incontrare Solone e potergli chiedere cosa esattamente gli dissero i sacerdoti egizi in merito alla vicenda di Atlantide. Naturalmente gli chiederei anche come sia riuscito a spianare la strada alla democrazia ad Atene. Poi finiremmo con l’invitare un po’ di amici al simposio, qualche bella flautista, e si chiacchiererebbe fino al mattino. Sveglio, mi renderei conto che è stato solo un sogno, ma almeno mi piacerebbe poter ricordare le sue parole su Atlantide…

L’Idea Magazine: Potresti cercare di definire te stesso con tre aggettivi?
Francesco Colafemmina: Curioso, testardo, sognatore.

Mi affido allo stupore che la vita mi riserva giorno per giorno.

L’Idea Magazine: Oltre l’apicoltura e la letteratura, hai altri interessi?
Francesco Colafemmina: Un tempo ballavo il tango; dopo diverse partner che non apprezzavano, ho appeso le scarpe al chiodo… Mi limito ad ascoltare la buona musica. E amo cucinare, naturalmente cucina greca…

L’Idea Magazine: Sogni nel cassetto?
Francesco Colafemmina: Mi affido allo stupore che la vita mi riserva giorno per giorno.

L’Idea Magazine: Un messaggio per i nostri lettori?
Francesco Colafemmina: Coltivate la speranza, non smettete mai d’essere curiosi, ricercate sempre la bellezza.

Il prof. Gentile, chirurgo plastico di Tor Vergata, nella classifica Top Scientists dell’Università di Stanford. Intervista esclusiva.

Intervista di Tiziano Thomas Dossena

Nella classifica TOP SCIENTISTS, ranking dei migliori scienziati al mondo, appena pubblicata dalla Stanford University (August 2021 data-update for “Updated science-wide author databases of standardized citation indicators – published October 19, 2021), figura il Prof Pietro Gentile, Professore Associato di Chirurgia Plastica all’Università di Roma “Tor Vergata”. Lo studio condotto dal Prof. John Ioannidis, della Università di Stanford, ha analizzato ben 8,6 milioni di ricercatori di Università e Centri di ricerca di tutto il mondo, identificando gli scienziati che si sono distinti a livello mondiale per autorevolezza
scientifica sulla base del numero di pubblicazioni e di citazioni nelle relative aree disciplinari.
L’analisi dei dati bibliometrici ha consentito di creare una lista pubblicamente disponibile di oltre 100.000 scienziati di spicco, (2% del totale), classificati in 22 campi scientifici e 176 sottocampi, che fornisce informazioni standardizzate su citazioni, h-index, ed altri indicatori bibliometrici.
Il prof. dott. Pietro Gentile, che ci ha dato l’opportunita di intervistarlo, è stato inoltre identificato dall’agenzia di ranking americana ExpertScape come il miglior chirurgo plastico italiano 2021 e tra i primi 20 a livello mondiale.
Questi risultati evidenziano l’eccellenza e la rilevanza internazionale della ricerca scientifica italiana anche nell’ambito della chirurgia plastica.

L’Idea Magazine: Buongiorno Prof. Gentile. Essere riconosciuto come uno dei migliori dottori in chirurgia plastica del mondo deve essere averla riempita di orgoglio…
Prof. Pietro Gentile: Non posso negarlo! Anche se quello che mi rende più orgoglioso non è il titolo ma il riconoscimento a livello mondiale dei risultati dell’attività medico-scientifica svolta per oltre quindici anni di ricerca.

L’Idea Magazine: Che cosa Le ha fatto scegliere questo ramo della medicina?
Prof. Pietro Gentile: L’amore per l’arte e per la scienza: due mondi apparentemente opposti che la chirurgia plastica riesce incredibilmente ad unire. La chirurgia plastica è, infatti, l’unica branca della medicina che coniuga il rigore metodologico (proprio della scienza) al senso estetico (propria dell’arte).

L’Idea Magazine: Qual è stata per Lei l’operazione più complessa o difficile nel corso della Sua carriera?
Prof. Pietro Gentile: Dipende cosa si intende per complessità e difficoltà. Vede, a prescindere dalle difficoltà tecniche proprie di qualsiasi settore della medicina, nella chirurgia plastica il sanitario non solo deve garantire l’osservanza delle buone pratiche chirurgiche nel rispetto delle linee guida e dei protocolli scientifici, ma deve altresì riuscire a soddisfare le esigenze del paziente; ne consegue che le complessità e le difficoltà vanno di pari passo con il risultato auspicato dal paziente stesso. Venendo alla sua domanda, ho eseguito interventi di chirurgia plastica oggettivamente complessi ed innovativi in diverse parti del mondo che hanno richiesto precisione e professionalità, ma le posso assicurare che, al pari, anche interventi per così dire di routine possono nascondere complessità proprio in ragione del risultato da raggiungere. Il mio modo per ovviare alle difficoltà è stato quello di adottare un estremo rigore metodologico in ogni operazione dalla più semplice alla più complessa.

L’Idea Magazine: Lei ha pubblicato, tra le altre ricerche, una in particolare sull’uso del plasma arricchito di piastrine per trattare l’alopecia androgenetica a base ormonale. Potrebbe darci una breve spiegazione in merito?
Prof. Pietro Gentile: Mi rende orgoglioso aver pubblicato molti articoli scientifici su riviste internazionali ad alto impact factor anche sull’uso del PRP e di altre strategie rigenerative nell’alopecia androgenetica (AGA). Il PRP è un concentrato di fattori di crescita ottenuti dal proprio sangue, che ha dimostrato avere – in pazienti selezionati e ritenuti idonei – risultati statisticamente significativi nell’AGA di grado lieve/moderato: Circa il 60% dei pazienti trattati ha avuto risultati pienamente soddisfacenti. Ma, trattandosi di dati scientifici, è bene considerare anche l’altro lato della medaglia: infatti, un 20% di pazienti non ha avuto risultati così soddisfacenti, mentre un altro 20% non ha avuto miglioramenti. Una informazione che ritengo doverosa precisare è che il trattamento può essere eseguito in Italia soltanto in centri medici muniti di una specifica autorizzazione da parte del centro trasfusionale di riferimento, nel rispetto del Decreto Legge 2 Novembre 2015 (Legge sangue). Pertanto, invito i lettori interessati a ben documentarsi, anche sul possesso o meno di tale autorizzazione, prima di sottoporsi al suddetto trattamento medico.

L’Idea Magazine: Come possono essere usate le cellule staminali nella chirurgia plastica estetica e rigenerativa?
Prof. Pietro Gentile: Nella Chirurgia Plastica Rigenerativa, l’uso delle cellule staminali mesenchimali di derivazione adiposa (ricavate dunque dal proprio grasso) ha avuto un notevole incremento negli ultimi 10 anni. La procedura si basa su una liposuzione minimamente invasiva che consente di prelevare una doppia quantità di grasso. Una prima parte del grasso raccolto viene sottoposta a procedure di centrifugazione e filtrazione meccanica, procedure di manipolazione minima (legge 23 CE 2004 e successive) volte a isolare una sospensione di cellule vasculo sromali in cui sono contenute le staminali mesenchimali. Una seconda parte del grasso raccolto, viene arricchita con la sospensione cellulare e re-innestata nelle sedi di deficit dei tessuti molli.
Esempi di impiego possono essere, infatti, la ricostruzione mammaria, le cicatrici, deformità congenite o acquisite, esiti di ustione oppure motivazioni estetiche. In quest’ultimo caso, il grasso innestato, comunemente chiamato Lipofilling o Lipostructure, viene arricchito ed utilizzato – in pazienti selezionati – per l’aumento di volume del seno o per il rimodellamento mammario, per il ringiovanimento del volto, per l’aumento dei glutei o per il ringiovanimento delle mani. Negli ultimi anni ho notato che sono sempre più numerose le pazienti che prediligono l’utilizzo del grasso per l’aumento del seno (al posto delle protesi) in considerazione del risultato totalmente naturale ed armonico che tale pratica garantisce.

L’Idea Magazine: Lei pensa che in Italia siamo ormai all’avanguardia in questo settore?
Prof. Pietro Gentile: L’Italia è oggi – senza ombra di dubbio – tra i paesi al mondo più all’avanguardia nell’ambito della chirurgia plastica, ed il riconoscimento che personalmente ho ricevuto, essendo stato inserito nella “Top Scientist” sulla base delle pubblicazioni scientifiche realizzate in tale settore, ne è solo un piccolo esempio.

L’Idea Magazine: Riguardo l’estensione della chirurgia plastica, quando scelta puramente per scopi estetici, Lei pensa che ci possa essere un limite oltre al quale il medico non dovrebbe andare o la considera esclusivamente una scelta personale del paziente?
Prof. Pietro Gentile: Il Chirurgo Plastico deve necessariamente scoraggiare il paziente o la paziente quando vengono richiesti interventi chirurgici non indicati. In questi casi, non è etico assecondare il paziente pur di eseguire l’intervento richiesto, piuttosto è necessario trovare un giusto equilibrio tra ciò che viene chiesto durante la visita e ciò che davvero è indicato fare nel rispetto dei protocolli scientifici e delle linee guida.

L’Idea Magazine: Che cosa Le piace fare nel tempo libero, sempre ammesso che ne abbia?
Prof. Pietro Gentile: Com’è facile comprendere, tra l’attività di ricerca, gli interventi chirurgici e l’attività di divulgazione scientifica nei congressi internazionali, di tempo libero ne ho davvero poco! Cerco comunque di ritagliarmi degli spazi per svolgere attività fisica preferibilmente all’aria aperta e al sole – che consiglio a tutti come toccasana per stimolare l’ossigenazione dei tessuti e la rigenerazione cellulare – nonché per godermi la vita familiare con la mia compagna e con gli amici.

L’Idea Magazine: Se Lei potesse incontrare una persona del passato, o anche del presente, qualsiasi persona, chi sarebbe e che cosa Le piacerebbe chiedere?
Prof. Pietro Gentile: Nell’ordine: Chris Barnard, Neil Armstrong, Giulio Andreotti e mia madre. Al primo chiederei quanto ha davvero contato la fortuna e la velocità nel fare il primo trapianto di cuore ai fini della carriera. Ad Armstrong chiederei la sensazione che ha provato nell’attimo in cui ha messo il piede sulla luna. Ad Andreotti chiederei di poter sbirciare nei suoi “famosi” archivi. A mia madre – che non c’è più ed alla quale devo tutto – chiederei se è orgogliosa dei risultati che ho raggiunto.

L’Idea Magazine: Se Lei dovesse definirsi con tre aggettivi, quali sarebbero?
Prof. Pietro Gentile: Visionario, Ostinato, Perfezionista.

L’Idea Magazine: Un messaggio ai nostri lettori?
Prof. Pietro Gentile: Ho trasformato ogni avversità, ostacolo e rifiuto in opportunità; vi auguro di riuscire a fare lo stesso.

“Ero in realtà interessato alla scrittura, ma pian piano il morbo della batteria ha prevalso, in quei lontanissimi anni…” Intervista esclusiva con Francesco Cusa [L’IDEA MAGAZINE 2021]

Intervista di Tiziano Thomas Dossena

Francesco Cusa, batterista, compositore, scrittore, nasce a Catania nel 1966. Si trasferisce a Bologna nel 1989, dove si laurea al Dams nel 1994. Il suo percorso artistico lo porterà a suonare, negli anni, in Europa, America, Asia e Africa. Da sempre interessato all’interdisciplinarità artistica, è anche scrittore di racconti, romanzi e poesie.

L’Idea Magazine: Buongiorno Francesco. Allora, tu hai iniziato i tuoi studi musicali con il piano, poi sei invece passato alla batteria. Che cosa ti ha spinto al cambiamento?
Francesco Cusa: È stato del tutto casuale, giacché dopo il diploma chiesi in regalo una batteria per puro sfizio. Ero in realtà interessato alla scrittura, ma pian piano il morbo della batteria ha prevalso, in quei lontanissimi anni.

L’Idea Magazine: Da Bologna, dove ti sei laureato, il tuo percorso artistico ti ha portato in molte parti del mondo. Lo hai fatto sempre con il collettivo bolognese “Bassesfere”?
Francesco Cusa: Certamente, come musicista, una svolta è stata la mia decisione di trasferirmi da Catania a Bologna alla fine degli anni Ottanta, nella Bologna ancora pregna dell’humus della ricerca e intrisa di fermento. Erano gli anni della “Pantera”, delle lezioni al DAMS con Eco, Nanni, Celati, Clementi, Donatoni, gli anni della nascita di importanti collettivi artistici come quello di “Bassesfere”, di cui sono uno dei fondatori. È parte di un percorso che si dipana fra studi di batteria, concerti con Steve Lacy, Tim Berne, Kenny Wheeler, i tour per ogni dove, la creazione dei miei progetti da leader come “66sixs”, “Skrunch”, “The Assassins”, “Naked Musicians”, fondazione di una label e di un collettivo come Improvvisatore Involontario, l’insegnamento in conservatorio… Bassesfere ha rappresentato simbolicamente il senso del collettivo artistico, ancora prassi e laboratorio in quei fervidi anni.

L’Idea Magazine: Potresti parlarci del progetto artistico “Improvvisatore Involontario”?
Francesco CusaImprovvisatore Involontario nasce da una duplice esigenza. Da un lato la necessità di produrre musica senza dover “dipendere” dalle scelte di altre label (o dagli eventuali rifiuti). Dall’altra da una passione viscerale per le musiche contemporanee, nel tentativo di fare emergere ciò che continuerei a definire “underground”, senza tema di smentita. Per molti anni siamo stati un collettivo aperto, e abbiamo avuto decine e decine di iscritti da tutto il mondo. Poi, dopo esperienze memorabili, quale l’organizzazione di un tour americano e di tantissime rassegne, abbiamo deciso di esistere in quanto label, attualmente gestita da me, Mauro Medda e Paolo Sorge.

fc and the assassins

L’Idea Magazine: In questo momento fai parte di vari gruppi jazzistici…
Francesco Cusa: Attualmente sono leader dell’FCT TRIO con Tonino Miano e Riccardo Grosso, del FRANCESCO CUSA & THE ASSASSINS con Domenico Caliri, Giovanni Benvenuti, Ferdinando Romano, dell’ensemble: “NAKED MUSICIANS”, del progetto di sonorizzazione di film d’epoca “SOLOMOVIE”, dello spettacolo “DRUMS & BOOKS”, co-leader dei THE LENOX BROTHERS (Cusa/Mimmo/Martino) dei “THE BLACK SHOES” in duo con la flautista Giorgia Santoro, e dello spettacolo musical-teatrale “MOLESTA CRUDELTÀ”. in trio batteria e voce insieme alle attrici Alice Ferlito e Laura Giordani.  Il mio Naked Musicians” è un metodo di conduction musicale che è stato realizzato in varie parti del mondo e da cui è stato tratto anche un libro di teoria musicale sulla “conduction”, chiamato, appunto “Naked Performers”.

L’Idea Magazine:Il tuo NAKED PERFORMERS: “Elementi di Conduction” è un libro di teoria musicale. A che cosa fa riferimento?
Francesco CusaNaked Musicians è una forma di orchestrazione e direzione dell’improvvisazione collettiva, che rinforza il sottile legame fra la tradizione della musica classica e quella del jazz creando uno spazio intermedio tra la notazione e l’improvvisazione, nonché permettendo l’acquisizione di nuove competenze e prospettive. Tramite ciò è possibile identificare e sfruttare i punti deboli e quelli di forza di entrambi e rappresentare le limitazioni che hanno fra loro. Naked Musicians è un vocabolario di segni ideografici e gesti utilizzati per costruire un arrangiamento o una composizione in tempo reale. Ogni simbolo trasmette informazioni per l’interpretazione da parte del musicista o del collettivo in modo da dare le possibilità di modificare armonie, melodie, ritmi, articolazioni, un fraseggio o forme.

L’Idea Magazine: Componi anche musica, mi pare…
Francesco Cusa: Sì certo, da sempre.

L’Idea Magazine:Nella composizione di brani musicali, chi è stato il musicista che ti ha influenzato di più?
Francesco Cusa: Tim Berne senza dubbio, ma come non citare anche Zappa, Bartok, la musica seriale, ecc. In Italia sono stato fortunato ad avere studiato con Alfredo Impullitti e Domenico Caliri.

L’Idea Magazine: Insegni anche al Conservatorio di Reggio Calabria, dopo molti anni di insegnamento presso i conservatori di Benevento, Monopoli, Frosinone, Lecce. Trovi una differenza sostanziale nell’insegnare la batteria jazz con, per esempio, la batteria rock and roll?
Francesco Cusa: Nella sostanza no. Nella forma ci sono sostanziali differenze che occorre focalizzare al fine di “liberare” l’allievo dalle dipendenze dei vari stili.

L’Idea Magazine: Oltre alla musica, tu hai anche avuto molte esperienze letterarie. Di che cosa tratta il tuo primo libro, “Novelle crudeli” (2014)?
Francesco Cusa: Mi piace riportare i pareri di alcuni lettori che rispecchiano le mie intenzioni“Uomini incompresi ma compiaciuti di essere portati sul baratro della routine di coppia, personaggi ambigui, logorroici, consapevoli della propria bruttezza o della disonestà delle proprie azioni. In questo ritmo spasmodico denso di caratteri a volte molto differenti tra loro, trascende una lucida consapevolezza della condizione umana, con i difetti e le virtù che la contraddistinguono, e la “crudeltà” nel titolo, non estromette il lirismo che tra le righe si riesce a cogliere. Non vi aspettate banalità ma lasciatevi trasportare da una disperata follia in cui, con fascino dissacrante, la morte corporale o spirituale, denota in verità un cambiamento, l’inizio di una mutata esistenza”.
Francesco ama le donne. Donne cantate e musicate nelle sue novelle. Donne dai diversi ritratti psicologici che non si stanca di sottolineare. Incedono con i loro vestiti, talvolta macchiati di sangue, in un tramonto colmo di liberazione. Nei suoi racconti è presente sempre il lato oscuro del dolore. Il dolore agghiacciante, terribile, squarciante come lama sottile. Il dolore narrato, il dolore indicibile… “è forse questo canto, questa tenue melodia che nella notte si fa strada vezzosamente una carezza di mia madre …”

L’Idea Magazine: Con “Racconti molesti” del 2017 che intenzioni avevi?
Francesco Cusa: Dopo la crudeltà sentivo il bisogno di esplorare il territorio della molestia. Come qualcuno ha ben scritto a proposito del libro: “è un libro in cui ci sono ‘amore’, ‘donne’, ‘esseri sovrannaturali’ e – ovviamente − l’Autore, ma − essendo un libro di racconti molesti − nessuno dei summenzionati è come ci si aspetterebbe, o si desidererebbe”. Amo costruire trappole semantiche in cui far precipitare il lettore. Sono alla ricerca di un senso nell’assurdo, per tale ragione ordisco tranelli, utilizzando magari una trama particolarmente accattivante, ma sempre con lo scopo di escogitare un trucco che rimanda sempre a un altrove rispetto alla trama.

L’Idea Magazine: Di che cosa tratta “Stimmate”, il tuo libro del 2018?
Francesco Cusa: È una raccolta poetica, la mia seconda delle quattro finora edite. Si tratta di un lavoro concettuale molto certosino, suddiviso in ben tre sezioni: Stimmate, Rime Sbavate e Rizoma che, come ha ben scritto il critico Patrizio De Santis, comprendono il tema del radicamento: “La radice è il punto focale di tutta la struttura di questa opera poetica, e si tratta in verità di un rizoma lirico invisibile, poiché nella concezione spirituale e essenziale dell’ Essere come parte della Radice regna l’ invisibile, che è al di là del reale. Sono odi e canti profondamente visionari, pervasi di un aspetto mistico, come ci suggerisce l’eponimo titolo che svetta sulla copertina del libro, dove si intravede una mano metallica e virtuale attraversata da un foro che sta ad indicare la passione del Cristo. Lettura veloce, non complessa ma cantabile e musicale”.

L’Idea Magazine:Altro libro importante della tua carriera letteraria è “Il surrealismo della pianta grassa” (2019). Che argomento tocca?
Francesco Cusa: è una sorta di pamphlet, di zibaldone che riassume tutti i generi letterari in cui mi sono cimentato: la poesia, il racconto, il piccolo saggio, l’aforisma… una sorta di diario romanzesco e picaresco delle mie avventure nel mondo. Altamente consigliato.

L’Idea Magazine:È da poco uscito in libreria il tuo ultimo romanzo, “Vic”. Potresti parlarcene?
Francesco Cusa: Vic è un ragazzo-uomo maturo-anziano che vive la sua schizofrenica vita di scrittore in un luogo immaginario del Sud dell’Italia: Cotrone. È un personaggio che rappresenta il trauma irriducibile, il caso clinico principe oggetto delle ricerche dei freudiani. Fortunatamente lui se ne sbatte di tali indagini, giacché egli rappresenta il cortocircuito di ogni narrazione clinica volta all’individuazione del caso topico, del “problema” su cui orchestrare la riuscita di un progetto teorico. In questo senso Vic nasce per ridonare all’Occidente l’aura mitica della legge di natura, ciò che prevale rispetto alla legge morale; in buona sostanza per restituire l’uomo alla sua sacralità. Forse è giunto per consentirmi di esplorare alcuni aspetti oscuri della mia coscienza.

L’Idea Magazine:Stai lavorando ad altri romanzi al momento?
Francesco Cusa: Ho appena terminato il mio ultimo romanzo, “2056”, ambientato appunto in un futuro distopico, di cui preferisco non rivelare nulla. Spero di trovare una casa editrice per farlo uscire nel 2022. Inoltre, ho già pronte altre due raccolte poetiche che, per ora, sto tenendo nel cassetto.

L’Idea Magazine: La tua attività di musicista continua nonostante il Covid o ne ha sofferto molto?
Francesco Cusa: Naturalmente abbiamo sofferto tutti, adesso stiamo pian piano riprendendo a suonare con continuità.

L’Idea Magazine: Sogni nel cassetto?
Francesco Cusa: Vedere che succederà nel 2056 e riavere indietro i miei capelli.

L’Idea Magazine: Se dovessi definirti con tre aggettivi, quali sarebbero?
Francesco Cusa: Ambiguo, straniante, generoso.

L’Idea Magazine:Se avessi l’opportunità di poterti incontrare con un personagiio del passato  o del presente, qualsiasi persona, chi sarebbe e che cosa vorresti chiedere?
Francesco Cusa: Certamente Socrate. Gli direi se, alla luce dei fatti ai giorni nostri, sceglierebbe ancora di bere la cicuta.

L’Idea Magazine:Un messaggio per i nostri lettori?
Francesco Cusa: Seguite sempre i vostri deliri, non accontentatevi mai, dubitate sempre e… comprate i miei libri!

We The Italians: Il Successo Del Ponte Culturale Italia-USA. Un’intervista Esclusiva Con Umberto Mucci [L’IDEA MAGAZINE 2021]

We The Italians: il successo del ponte culturale Italia-USA. Un’intervista esclusiva con Umberto Mucci

Intervista di Tiziano Thomas Dossena

Umberto Mucci ha una laurea in Scienze Politiche con indirizzo Internazionale ed un Master in Marketing e Comunicazione. Fondatore e CEO di We the Italians, la piattaforma online con il più alto numero di contenuti tra Italia e Stati Uniti, Mucci è stato co-direttore di “èItalia for USA”, sezione dedicata all’Italia negli Stati Uniti all’interno della rivista èItalia.
È stato responsabile delle relazioni internazionali di Innovarte per la mostra “Loghi d’Italia – Testimonianze dell’arte di eccellere”, e a capo della sezione diplomatica della rivista “Romacapitale”. Ha tenuto lezioni presso il Centro Internazionale di Studi Accent sull’emigrazione italiana negli Stati Uniti per studenti provenienti da Michigan State University, University of Minnesota e Santa Barbara City College. E’ stato relatore in numerosi eventi pubblici sia in Italia che negli Stati Uniti, e ha pubblicato libri sia in italiano che in inglese sulle relazioni tra Italia e Stati Uniti.

Tiziano Thomas DossenaUmberto, quando e perché iniziò la tua avventura con “We the Italians”?
Umberto Mucci: Ho iniziato ad occuparmi di italiani all’estero grazie alla mia collaborazione con un giornale che si chiamava è Italia. Fu lì che conobbi il mondo degli italiani in America: mi occupavo della sezione di è Italia dedicata a loro, che si chiamava èItalia for USA. Ma il motivo per cui ho nel cuore gli italoamericani risale a molto prima: mio padre fu salvato dalla Quinta Armata americana durante la seconda guerra mondiale, e rimase molto amico con tre italoamericani che facevano parte di quelle truppe, e che parlavano italiano. Quei tre italoamericani erano i miei eroi, senza di loro mio padre sarebbe stato fucilato dai fascisti e io non sarei mai nato. Si chiamavano Eddie Gastaldo, Anthony Tiso e Sal Di Marco.

Tiziano Thomas DossenaPotresti parlarmi un po’ del sito di We the Italians?
Umberto Mucci: Il sito è il portale col maggior numero di contenuti tra Italia e Stati Uniti, quasi 60.000. È diviso in diverse sezioni.

Ci sono le news: ogni giorno aggreghiamo e promuoviamo 25 news che riguardano Italia e Stati Uniti, o cose positive riguardanti l’Italia. Sono quasi tutte in inglese, e divise per area territoriale e sottocategoria tematica.

Ci sono le mie interviste, ormai quasi 250, a personaggi che ogni volta mi raccontano storie e punti di vista relativi a un diverso argomento del rapporto tra Italia e Stati Uniti: le interviste poi vengono pubblicate in almanacchi annuali, nelle due lingue. I libri pubblicati sono già sette.

Ci sono gli articoli del magazine, gratuito e mensile, anche in versione pdf sfogliabile e acquistabile in copia cartacea: sono circa 15 rubriche in inglese sulle eccellenze italiane, ovvero cultura, storia, design, arte, paesaggi, giardini, vino, artigianato, cucina, innovazione, buone notizie, sport, spettacolo, lingua, sapori, tematiche giovanili e piccoli borghi.

C’è l’archivio più completo e geolocalizzato con più di 1.400 siti che rappresentano qualcosa di italiano negli Stati Uniti: associazioni, festival, fondazioni, dipartimenti che insegnano la nostra lingua, musei dell’emigrazione italiana, istituzioni italiane, filiali delle istituzioni italoamericane nazionali.

C’è la possibilità di iscriversi gratuitamente a una o anche tutte le nostre 9 newsletter mensili che vanno a più di 100.000 iscritti, una per ogni area nelle quali abbiamo diviso gli Stati Uniti: New York, East, New England, South East, Great Lakes, Midwest, South, West, California.

C’è lo spazio dedicato alla difesa di Cristoforo Colombo.

C’è lo spazio dedicato al fundraising che abbiamo organizzato quando è iniziata l’emergenza covid, a favore dell’Ospedale Spallanzani di Roma.

C’è lo spazio dedicato al nostro store virtuale, con più di 20 gadgets col nostro logo, molto apprezzati e acquistati soprattutto in America.
A breve apriremo tre nuovi spazi. Il primo sarà dedicato al nostro team, che cresce di mese in mese e al momento è formato da 30 persone tra cui gli autori degli articoli del magazine e i nostri rappresentanti in 16 diversi Stati americani e in 3 regioni italiane. Il secondo sarà dedicato alle partnership che stiamo siglando con fornitori di servizi che saranno dedicati ai nostri lettori italoamericani: i temi sui quali stiamo lavorando al momento, ma siamo aperti a qualsiasi argomento, sono study abroad, promozione culturale italiana in America, promozione commerciale di prodotti italiani, real estate, assistenza per richieste di cittadinanza italiana, turismo americano in Italia, servizi legali di vario tipo, brand reputation, investimenti americani in Italia. Il terzo nuovo spazio sarà dedicato a We the ItaliaNews, il video e audio podcast in lingua inglese sull’Italia che ormai è diventato un vero e proprio mini telegiornale

Tiziano Thomas DossenaTu hai fatto più di 200 interviste a vari personaggi, e le prime cento interviste sono state raccolte in un libro a titolo “We the Italians. Two flags, One heart. One hundred interviews about Italy and the US”. Quali sono i criteri di scelta dei personaggi?
Umberto Mucci: ti ringrazio per questa domanda, perché dietro la scelta delle persone da intervistare c’è una ricerca molto scrupolosa che mi rendo conto sia difficile da realizzare da fuori. Sin dall’inizio, e le prime interviste risalgono al 2012, quindi questo è il decimo anno, ho cercato di spaziare il più possibile mantenendo fermo come fil rouge il rapporto tra Italia e Stati Uniti. Cerco di alternare quanto più possibile uomini e donne, persone che vivono in Italia e altri che sono negli Stati Uniti, e tra di questi ultimi cerco di spaziare tra tutte le zone americane. Cerco di trovare argomenti del passato e del presente, tematici e territoriali, culturali e di altro tipo. Cerco di variare il più possibile, e di non fare mai un’intervista simile a qualsiasi altra mai fatta da me. Il lavoro dietro le quinte non è piccolo: parte dall’analisi degli argomenti e delle persone, poi c’è il contatto, lo studio per le domande, l’intervista, la trascrizione, l’invio del draft a chi è intervistato, perché pubblico solo il testo col suo ok; poi la traduzione nell’altra lingua, a seconda che io abbia fatto l’intervista in italiano o in inglese; e poi la pubblicazione e la promozione. Insomma, non è un’attività banale, ma sono molto fortunato, perché le interviste mi hanno permesso di conoscere persone e storie straordinarie, e di raccontarle sia in Italia che in America.

Tiziano Thomas Dossena: Ho visto che hai continuato a pubblicare in vari libri annuali le tue interviste… 
Umberto Mucci: Si, come dicevo ogni anno dal 2016 esce lo Yearbook, ovvero l’almanacco con le interviste in due lingue pubblicate l’anno precedente. Sono anche in versione e-book. I primi due libri invece contengono le 100 più importanti interviste pubblicate in inglese prima del 2016, il primo; e una selezione delle migliori 50 pubblicate nello stesso periodo, ma in italiano, il secondo.
Ho presentato questi libri in una dozzina di eventi in Italia, e 25 negli Stati Uniti. Ed è stato sempre molto bello raccontare aneddoti e vicende, storie ed eccellenze che riguardano alcuni ambiti del rapporto tra Italia e Stati Uniti. Ricordo una volta ad Albuquerque, in New Mexico, quando al momento di firmare i libri che il pubblico aveva acquistato mi si avvicina una signora di una certa età, in lacrime. Io chiedo che succede, se ha bisogno di aiuto. E in un italiano un po’ incerto ma comprensibilissimo, mi dice di essere americana ma di origini italiane, radici di cui va molto orgogliosa. Piange di gioia perché l’Italia non dedica molto tempo e spazio alla comunità italiana laggiù, a parte avere una bravissima console onoraria che era lì con noi. E si è commossa perché è arrivato uno da Roma ad omaggiare loro e a raccontare a loro, italoamericani, cose sugli italoamericani che loro non conoscevano. Le dico che il merito era dei miei intervistati, e la abbraccio. Mi sta ringraziando, ma le dico che sono io a ringraziare lei. È un momento difficile da dimenticare.
È importante che questi libri siano anche in italiano. Qui in Italia c’è una grande ignoranza circa la comunità italoamericana, le sue storie, i suoi sacrifici, i suoi successi, e il suo enorme orgoglio delle radici italiane. Essere un po’ l’ambasciatore di questi temi mi rende molto felice. L’Italia avrebbe diverse cose da imparare dagli italoamericani.

Tiziano Thomas DossenaQuali furono le interviste nelle quali il personaggio ti sorprese di più con le sue risposte?
Umberto Mucci: Direi che quasi sempre rimango stupito di qualcosa. Ne cito brevemente 5.
Thomas Gambino, italiano alle Hawaii, mi ha raccontato di Henry Ginaca, siciliano (come Thomas) che si ritrovò a inizio dello scorso secolo proprio alle Hawaii, e gli portarono una fetta di ananas. Henry non l’aveva mai visto o assaggiato: incuriosito, chiese di vedere il frutto intero, e quando gli portarono un ananas intero inventò uno strumento artigianale per tagliarne le fette in automatico senza sprecarne la polpa. Le Hawaii divennero l’unico esportatore di ananas al mondo e il suo PIL schizzò in alto.
La fantastica storia di Anna Tornello, sergente di polizia in Connecticut, master in psicologia industriale, addestrata con l’FBI per diventare negoziatore di ostaggi e… cantante d’opera.
Giovanni Zoppè, direttore dell’unico circo italiano d’America, da generazioni e centinaia di anni gestito dalla sua famiglia, che mi ha raccontato quanto la cultura italiana della commedia abbia a che fare con l’arte circense e come il suo ruolo di clown sia più importante di quanto si potrebbe pensare.
Gerald Gems, scrittore di sport che mi ha svelato la storia di Margaret Gisolo, italoamericana talmente talentuosa da aver vinto un campionato di stato di Baseball con la squadra maschile, provocando una protesta che – nel 1928! – divenne di portata nazionale, riguardante la possibilità per le ragazze di giocare nei campionati maschili.
Renato Cantore mi ha parlato di Rocco Petrone, eccezionale italoamericano di origini umilissime, laureato a West Point, campione di Football americano e poi scienziato, ma non uno scienziato qualunque: il Direttore delle operazioni di lancio dell’Apollo 11, l’uomo a cui si affidò la NASA per fare quelle “cose difficili” che purtroppo JFK non poté mai vedere realizzate.

Tiziano Thomas DossenaQuale fu l’intervista che ti emozionò di più e perché?
Umberto Mucci: È difficile rispondere a questa domanda. Forse quella a Samuel Alito, Giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti. Siamo l’unica testata italiana con sede qui in Italia ad averlo intervistato. Ma ogni intervista che pubblico è un dono per me, il tempo che queste persone mi dedicano non è scontato e io sono grato a ognuno di loro.

Tiziano Thomas DossenaQual è la ragione dell’esistenza di un Magazine online, di un sito Web e anche di una Newsletter? Che differenza c’è fra i tre prodotti?
Umberto Mucci: Il magazine ha contenuti descrittivi e quasi mai legati all’attualità quotidiana, essendo un mensile; parla solo di Italia (tranne le interviste e una sola rubrica che si chiama IT and US) e racconta l’eccellenza italiana.
Il sito è un collettore di contenuti diversi tra di loro, anche se con il fil rouge dei rapporti tra Italia e Stati Uniti: è la nostra vetrina, e a breve diventerà anche una sorta di centro commerciale virtuale nel quale proporre ai nostri lettori opportunità di servizi e prodotti per loro interessanti.
La newsletter è il modo per raggiungere i nostri lettori tramite email e farci vivi in modalità “push”, e contiene la copertina del magazine e 9 news come preview di tutte quelle inserite nel mese di riferimento.

Tiziano Thomas DossenaDall’inizio del lockdown hai anche creato su YouTube un podcast a titolo “WetheItaliaNews”. Che cosa ti ha spinto a farlo e qual è lo scopo del podcast?
Umberto Mucci: Era il secondo giorno di lockdown qui in Italia. Avevo appena partecipato ad una trasmissione con una radio della Louisiana, e mi ero reso conto che in America non capivano cosa stesse succedendo in Italia. Era esattamente quello che capitava a noi qualche settimana prima, quando guardavamo le immagini della Cina. Per cui sapevo che gli italoamericani volevano sapere del loro Paese di origine, ma anche che non erano preparati al fatto che, inevitabilmente, il virus sarebbe arrivato anche da loro. Ero chiuso in casa, la cosa migliore che potessi fare era vincere la mia naturale ritrosia a mettermi davanti a una telecamera, e raccontare cosa stava accadendo. Mi sono buttato, forzando la mia natura. Fu molto apprezzato.
Iniziai facendo un video al giorno, e cominciarono ad essere visti sulle diverse piattaforme da un migliaio di persone ogni puntata. Iniziarono ad arrivare domande e timori: io non volevo essere apocalittico, né portatore di sventura, ma sapevo che sarebbe arrivato anche a loro e raccontare cosa vivevamo noi era il modo migliore per prepararli. E così fu.
Alla fine del lockdown italiano, a maggio, decisi di cambiare la frequenza e fare un video ogni due giorni, il lunedì, mercoledì e venerdì. E iniziai a caricare anche l’audio su un podcast audio, che è uno strumento che ha molto successo. Abbiamo già prodotto più di 180 video.
Oggi il podcast è parte fondamentale di quello che fa We the Italians. È una fatica enorme, perché è di fatto un telegiornale di circa 8/10 minuti in cui faccio tutto io. Forse troverò il modo di avere qualcun altro che mi affianca o mi sostituisce stando davanti alla telecamera. Certamente la produzione dei contenuti rimarrà mia responsabilità. Parlo di Italia sotto diversi profili, cerco di alternare notizie non belle ad altre positive, e cerco di non parlare di politica: con la crisi di governo è stato impossibile evitare di accennare a cosa succede, ma mi sono posto come regola che le mie idee non influenzino i video, e credo – e spero – di esserci riuscito. Mi costa tanto dover dare brutte notizie, quando ci sono: amo l’Italia e vorrei dare solo notizie positive. Ma non sarei fedele allo spirito con cui ho iniziato a fare i video.

Tiziano Thomas DossenaUsi anche molto il social media. In che programmi sei presente? Quali sono i riscontri in questo caso?
Umberto Mucci: Quello dei social media è un mondo in grande evoluzione. Abbiamo iniziato con Facebook, dove abbiamo quasi 50.000 like sulla nostra pagina. Siamo anche su Twitter e Instagram, dove abbiamo da poco implementato una nuova strategia che inizia a dare i suoi frutti. Siamo anche su LinkedIn, dove abbiamo un gruppo con 1.200 persone, quasi tutte italoamericane. E c’è il canale YouTube, dove ci sono i video di We the ItaliaNews più altri riguardanti alcuni nostri eventi e altri relativi al fundraising. E poi abbiamo aperto un account su Tik Tok, ma è ancora vuoto perché stiamo cercando qualcuno che se ne occupi: all’inizio lo avevo sottovalutato, ma penso che invece abbia molte potenzialità.
Io modero tutti i contenuti, e a volte non è facile. Su tutti i nostri social diamo il benvenuto a contributi e idee di tutti, con un’unica regola, valida per tutti e inderogabile: non c’è spazio per insulti, parolacce e volgarità. Chi si comporta così è fuori, i nostri social sono uno spazio sicuro dove ci può essere una discussione ma mai insulti. A volte si fa una grandissima fatica, c’è tanta gente davvero molto arrabbiata, volgare e ignorante lì fuori, e noi non li vogliamo nei nostri spazi, comunque la pensino.

Tiziano Thomas DossenaDurante il lockdown, hai anche attivato una raccolta fondi per aiutare l’Italia…
Umberto Mucci: Sì, andiamo molto fieri di questo fundraising a favore dell’Ospedale Spallanzani, il centro italiano più importante dedicato alla lotta contro le malattie infettive: un grande successo, perché per la prima volta sono stati raccolti fondi in una situazione di emergenza in cui l’emergenza riguardava non solo noi italiani, ma anche i donatori italoamericani, che ci hanno permesso di raccogliere più di 53.000 €, tutti donati allo Spallanzani. È lì che hanno isolato il virus per la prima volta in Europa, è lì che un anno fa furono ricoverati e curati i due turisti cinesi in Italia che furono i primi due a cui fu diagnosticata la positività in Italia, è lì che stanno lavorando al vaccino tutto italiano che avremo in estate.

Tiziano Thomas DossenaHai anche una sezione nel sito dedicata alla difesa di Cristoforo Colombo. Puoi parlarcene un po’?
Umberto Mucci: Lo spazio dedicato alla difesa di Cristoforo Colombo ha diverse importanti sezioni. C’è l’archivio di tutte le news promosse su questo argomento, più di 1.600. C’è la pubblicazione della gazzetta ufficiale che sancisce che dal 2004 ogni 12 Ottobre in Italia è la «Giornata nazionale di Cristoforo Colombo», e la sua traduzione in inglese. C’è il manifesto a difesa di Colombo che invito tutti i vostri lettori a firmare. C’è il video del primo Columbus Day Online che abbiamo fatto lo scorso Ottobre con la partecipazione di 50 leader italoamericani da 20 dei 50 Stati americani, un evento mai fatto prima, che ha contenuto anche il bellissimo documentario “Cristoforo Colombo – L’Uomo, il viaggio, il mito” realizzato da Lorenzo Zeppa con la partecipazione di Antonio Musarra e Giacomo Montanari.
La difesa di Colombo è l’unico tema sul quale We the Italians è ufficialmente e convintamente schierata. Siamo gli italiani che vivono in Italia e difendono un grande italiano da attacchi sciocchi, oltraggiosi, antistorici e ignoranti, che colpiscono lui e insieme gli italoamericani, e di riflesso l’Italia. Purtroppo, e questo è grave e sbagliato, l’Italia non fa nulla per difenderlo, e sia lui che gli italoamericani meriterebbero molto meglio. Non ci arrenderemo mai all’idea che qualcuno condanni un pioniere del XV secolo, l’autore della più grande impresa della storia dell’uomo, giudicandolo scioccamente con i parametri del XXI secolo. Non ci arrenderemo mai all’idea che qualcuno voglia obbligare gli italoamericani, per di più con l’alibi di portare rispetto ad un altro gruppo etnico, a rinunciare al simbolo che si sono scelti. Non ci arrenderemo mai all’idea che la violenza contro la verità e contro le statue che sono molto di più di un pezzo di marmo passi sotto silenzio per omaggio al politicamente corretto. Non ci arrenderemo mai all’idea che il bersaglio del Ku Klux Klan di 100 anni fa, attaccato dai razzisti perché rappresentava la libertà religiosa e il positivo contributo degli immigrati, oggi sia fatto passare incredibilmente per un simbolo di razzismo.

Tiziano Thomas DossenaTu sei tra i fondatori e sei stato anche Segretario Generale della Fondazione Roma Europea per ben sette anni. Qual è lo scopo di tale Fondazione e quali sono stati i tuoi compiti in tale posizione?
Umberto Mucci: Roma Europea è stata un bellissimo sogno di fare quello che forse sta succedendo oggi in Italia: migliorare la nostra comunità aumentandone il suo profilo europeo. Le ho dedicato tanti anni, ho imparato molto, poi sono passato a fare altro. Ma il sogno europeo rimane vivo e oggi riguarda non solo Roma ma tutta l’Italia.

Tiziano Thomas DossenaHai pubblicato molti libri, tutti però mi pare che abbiano come tematica le tue interviste. Hai intenzione di allargare le tue mire come autore e di pubblicare anche qualche altro tipo di libro, vedi saggistica o magari anche un romanzo?
Umberto Mucci: Romanzi no, e gli almanacchi con le interviste continueranno. Ma c’è l’idea di farne uno diverso, insieme ad altri, nella versione italiana e in quella inglese. Stiamo parlando, speriamo vada in porto, ci terrei molto. Per ora non posso dire di più.

Tiziano Thomas DossenaChiaramente sei molto occupato con tutte queste attività, ma invece di chiederti dove trovi il tempo per arrivare a tutto, che sarebbe forse più logico, mi permetto di chiederti se hai altri progetti in lavorazione, dato che generalmente chi è molto occupato trova sempre qualche cosa d’altro da fare…
Umberto Mucci: Bè, c’è il progetto di far diventare We the Italians molto più di quello che è ora. Avevamo dedicato molto tempo alla stesura di un business plan e a febbraio 2020 eravamo pronti a incontrare alcuni investitori: ma un business plan pre covid non ha senso oggi, e quindi solo parte di quello che c’era scritto è attuale. Abbiamo ripreso a lavorarci, ma oggi scrivere un business plan richiede capacità di previsione che le incertezze rendono quasi impossibili.

Tiziano Thomas DossenaSogni nel cassetto?
Umberto Mucci: Dormo poco e sogno ancora meno, ma ti rispondo così. Perché accada ci vogliono ancora diversi passaggi, tantissimo lavoro e un bel po’ di fortuna, ma vorrei che un giorno We the Italians arrivasse ad essere la risposta alla domanda “quale nome ti viene in mente se ti chiedo di descrivermi il modo migliore in cui l’Italia si promuove in America”? Ecco, allora, e solo allora, forse sarei soddisfatto…

Tiziano Thomas DossenaSe tu potessi incontrare qualsiasi personaggio della storia e far loro una domanda, chi sarebbe e che cosa chiederesti?
Umberto Mucci: Forse sarebbe proprio Cristoforo Colombo, e gli chiederei di rendersi conto che aveva scoperto il nuovo mondo: a quel punto oggi parleremmo degli Stati Uniti di Colombia e sarebbe più difficile vomitargli addosso le ingiustizie che purtroppo vediamo ogni giorno.

Tiziano Thomas DossenaUn messaggio per i nostri lettori?
Umberto Mucci: Li ringrazio, e con loro ringrazio anche te, Tiziano, e chiedo loro di continuare a seguire L’Idea Magazine, e quando hanno tempo, dopo, anche We the Italians.

Viola Manuela Ceccarini (ViVi), “l’italiana”. [Christopher Magazine, aprile 2019]

Intervista di Tiziano Thomas Dossena.

{Come apparsa su Christopher , Febbraio 2019]

Milanese di nascita, Viola Manuela Ceccarini sta ottenendo un successo invidiabile nel mondo televisivo latino negli USA, dopo aver contribuito per vari canali televisivi internazionali in italiano. Giornalista riconosciuta (è corrispondente per ben sei riviste, oltre a vari canali televisivi e radiofonici) Viola, anzi ViVi, come la identificano gli amici, copre tutti i premi internazionali (Grammys, Emmy, Oscar, eccetera) e presenta al pubblico una visuale tutta personale degli eventi. Parla un ottimo spagnolo con un leggero accento straniero che le ha meritato il nomignolo de “l’italiana” da parte del largo pubblico televisivo latino. ViVi è la vincitrice del premio “Young Female Entrepeneur of the Year” nella competizione internazionale Stevie® Awards for Women in Business. Ci siamo incontrati nel centro di Manhattan ed abbiamo fatto una bella chiacchierata.Viola Manuela Ceccarini

Vi Vi, potresti raccontare  ai nostri lettori come e perchè sei arrivata negli Stati Uniti?
Crescere in una delle capitali più influenti della moda a livello mondiale: Milano, mi ha ispirata a intraprendere una carriera nel settore della moda e dello spettacolo.
All’età di 17 anni, dopo aver conseguito il diploma di scuola superiore, i miei genitori mi fecero un regalo “di post diploma” mandandomi tre settimane a studiare l’inglese a New York.
Ricordo ancora il momento in cui arrivai a Times Square… rimasi incantata alla vista dei grattaceli, le strade affollate e le luci sfavillanti… per la prima volta provai un sentimento di libertà infinita… e dentro di me sapevo che in questa città tutti i miei sogni si sarebbero potuti realizzare, così ho fatto una promessa a me stessa, che sarei ritornata a vivere a New York…. un giorno…
Tre anni dopo: Dopo essermi laureata all’Università di Milano in “Comunicazione Visiva e Multimediale” ho cominciato a lavorare per una rivista di moda Italiana locale chiamata “Zaffiro Magazine”, ero incaricata di scrivere articoli e intervistare personalità della moda ad eventi Milanesi della vita mondana.
Purtroppo peró le opportunità nel settore erano limitate, motivo che mi ha spinta a riconsiderare l’idea di vivere a New York permanentemente.
Così nel 2013, ho lasciato Milano e mi sono trasferita a New York da sola e contro la volontà dei miei genitori, spinta dalla passione e voglia di crescere professionalmente.
Vivere a NY è sempre stato il mio sogno ed una sfida personale! New York ha un’energia unica; è la capitale del mondo dove tutti sono uguali e rispettati, che tu stia cogliendo margherite (che vedi solo tu) su un marciapiede o che tu sia Leonardo DiCaprio, la gente ti guarda nello stesso modo. Perché chi è qui ha ambizioni, un progetto! Tutti i migliori li trovi a New York; è una città che, o ti stimola ad essere umile e migliorarti, o ti schiaccia; per questo la amo!!”

Tu pensi che l’America, e in particolare New York, offra ancor oggi grandi opportunità per chi ha del talento?
Assolutamente si!!! Per poter trovare e beneficiare delle opportunità a New York devi venire qui con un certo tipo di mentalità che comporta: ambizione e perseveranza, preceduto da un piano d’azione e una gran voglia di lavorare e realizzare un progetto senza mai perdere di mira l’obbiettivo finale.
Anche se credo fermamente che New York non sia una città per tutti, per lo stile di vita frenetico e talvolta stressante, devi amare lavorare e devi avere dei sogni grandi da realizzare…

Per vari anni hai scritto e parlato di moda e di Alta Società sia su varie riviste sia in programmi televisivi. Come sei arrivata a questa specializzazione giormalistica?
Ho sempre saputo che volevo lavorare nei media e nel mondo dello spettacolo. Fin da piccola io e mia sorella giocavamo con la telecamera di papà; lei mi filmava e io presentavo, cantavo e ballavo.
Nel 2011 mi sono laureata in “Comunicazione Visiva e Multimediale” presso l’Accademia Multimediale Europea ACME, specializzata in arti visive e produzione multimediale, dove ho imparato a fare post produzione con programmi di montaggio video come Final Cut Pro/ Adobe Premiere.
Dopo essermi laureata, ho mosso i miei primi passi come intervistatrice-editorialista per una rivista italiana di lusso stampata e online chiamata “Zaffiro Magazine”, presentando eventi nella vita notturna milanese.
La rivista era gestita da un azienda di comunicazione chiamata DBCommunication per la quale eseguivo lavori nel campo delle pubbliche relazioni, occupando un ruolo fondamentale per l’azienda, coprendo progetti importanti per i loro clienti, inclusi artisti e celebrità italiane. Inoltre sono stata incaricata della progettazione del logo aziendale. Questo logo è stato poi stampato su t-shirt e indossato da VIP italiani, cantanti, reality star e celebrità.
La mia passione per i media é iniziata in Italia ed é poi cresciuta in America; scrivere e presentare mi danno  una voce e soprattutto l’opportunitá di esprimermi .
Attualmente sto scrivendo in tre lingue (Italiano, Spagnolo e Inglese) per varie riviste e periodici che parlano di moda e lifestyle. Copro eventi di moda, spettacolo e intrattenimento come ad esempio: New York Fashion Week, Film Festivals, Grammys, Oscars…etc etc

Ora però stai avendo un enorme successo con il gossip nientemeno che in un programma televisivo in spagnolo. Puoi parlarci un poco di questa tua nuova esperienza?
Si!! La comunità Ispana mi ha sempre accolta a braccia aperte. Quando mi sono trasferita a New York sono venuta a vivere direttamente a Washington Heights, un quartiere latino situato nella parte alta di Manhattan (Uptown). La mia prima stanza in affitto era in casa di una famiglia di Dominicani, dove ho vissuto per 2 anni e dove ho imparato a parlare lo Spagnolo (e lo street slang), ad amare la cultura, la cucina e la musica.
Fatalità del caso, attualmente sto lavorando per un canale Ispano chiamato Super Canal, dove conduco un segmento di notizie di intrattenimento, gossip e moda. Il nome del programma é “Option New York” ed è trasmesso in vivo dal lunedì al venerdì (2-3 pm) ovunque negli Stati Uniti via Cavo su Spectrum Canale 870, Verizon Canale 1507, Comcast Canale 620 e Optimum Canale 1023. Inoltre il programma é trasmesso a livello internazionale in diretta dalle 3-4 pm nella Repubblica Domenicana sul Canale 33 (uno dei loro canali principali), a Puerto Rico, nelle Caribbean Islands e in Spagna.

La moda, però, Devi avercela nel sangue perchè ho potuto ammirare varie tue foto nelle quali posi come modella. Pensi di continuare anche nelle sfilate nonostante i tuoi molti impegni professionali?
Ahah grazie! Si, tengo le porte aperte per qualsiasi opportunità mi si presenti $$$$!! In passato ho lavorato come fotomodella ma per ora l’unica sfilata alla quale abbia mai partecipato é stata quella della mia amica stilista Pamela Quinzi. Solitamente collaboro con stilisti quando vado a coprire eventi importanti, di solito lavoro e do l’opportunità a stilisti Italiani di presentare le loro collezioni, perché ci sono moltissimi stilisti talentosi in Italia che hanno bisogno di uscire allo scoperto.

Su quali altri progetti stai lavorando?
Ho tanti progetti in ballo che purtroppo non posso svelare ancora; sicuramente posso dirti che presto uscirà un video musicale di Messiah, Kapuchino e Tali al quale ho preso parte di recente. Loro sono artisti urbani conosciuti, Messiah é colui che ha fatto il featuring con Cardi B nella versione di Bodak Yellow in Spagnolo.
Non vedo l’ora di condividerlo con voi!

AN INTERVIEW TO THE AUTHOR TONY NAPOLI

AN INTERVIEW TO THE AUTHOR  TONY NAPOLI

By Tiziano Thomas Dossena, L’Idea Magazine, NY, February 13, 2014

Recently we published a review on the popular book “My Father, My Don,” A Son’s Journey from Organized Crime to Sobriety, and we are now pleased to offer our readers an interview to the author, Tony Napoli.

L’Idea: What made you decide to write this book? 

Tony Napoli:  I decided to write this book with the encouragement from my mother and other family member’s when I was 26 years old; that was 52 years ago. As I got older, I gathered more and more material and I outlived most of the characters mentioned in my book. When I decided I had enough material, I hired a co-writer to help me put all my excerpts of about a 1,000 pages, into story form. My book was released on Sept.18th 2008, when I was 73 years old.

L’Idea: When you were seventeen, you were approached by the Boston Braves to play in the summer time for one of their Minor League Clubs. Your mother said “No way” because she did not want you far from home. You also were training for the US Air Force boxing team and there were talks about participating to the 1956 Olympics. This time it was your father who intervened and said “No”; and that was it. This is all recorded in the chapter titled “The road not taken”. Do you feel regrets for not pursuing those dreams? Were you ever even tempted to disobey or at least try to convince your parents? Do you believe your parents were justified in their requests? If so, why? 

Tony Napoli:  My father never said NO to my boxing as an Amateur in the Golden Gloves and on the Air Force boxing team. He said NO after I was Honorably Discharged from the US Air Force and I wanted to turn Pro as a Boxer. He said I was management material, and he only wanted me to learn the art of self-defense to protect myself in the streets of Brooklyn. He also felt that a strong mind needs a strong body to accomplish and get things done the right way. I continuously disobeyed my parents when they tried to make decisions for my future. I loved my mother dearly and I listened to her when she asked me not to travel with the Boston Braves Minor league Baseball team in the summer time when school was out, because I was only 17 years old and I didn’t want her to worry about me traveling across the country on a broken down bus.

Jimmy Nap Napoli - Tony Napoli

Jimmy Nap Napoli – Tony Napoli

L’Idea: You name quite a few entertainers who you had the opportunity to meet, for good or bad reasons. Who was the one who impressed you the most and why?

Tony Napoli:  The entertainer I was most impressed with was Frank Sinatra. I liked the way he hired former athletes to travel with him. He made them earn a living in an honest way by putting them on his payroll and use it as a tax write-off. They traveled all over the world with him, not only as bodyguards, but mostly as close friends who had no other way of making a living due to their lack of education. I became Sinatra’s drinking partner on many occasions, especially when he entertained at Caesar’s Palace, in Las Vegas, Nevada. I was a Casino Host in charge of entertainment at the time. Frank was very generous with people he was close to. He never wanted to get close to strangers. He was very rude to those who tried to overpower him with autographs. He had his men get the names and address of his fans who wanted his autographed picture. He’d rather mail them a picture with his autograph when he spent time alone in his room. He always traveled with a bookkeeper. As a matter of fact the last wife he was married to, Barbara Marx, was also his bookkeeper before he married her. Frank was also an Amateur boxer before he became a singing star.

L’Idea: What was, in your opinion, the difference in style between Frank Sinatra and Jimmy Roselli?

Tony Napoli:  Frank Sinatra, whose birth name was Francis Sinestra, was  flamboyant, with great magnetism in public and on the stage. Jimmy Roselli, whose birth name was Michael Roselli, first worked for me when I was 24 years old. My father bought me a night club in Union City, New Jersey in 1959. The name of the club was “The Club Rag Doll.” I paid him $300.00 to sing on weekends. His very first song was “I’m Alone Because I Love You.” I was supposed to go to contract with him and be his manager. My father put a stop to that immediately when Roselli asked for a loan to cover his part of the deal. Before Roselli died, he called me from his home in Clearwater, Florida. He read my book, I mentioned him in Chapter 17. He remembered the night I was locked up after working over that crooked cop; Roselli was singing on my stage the night it happened. He complimented me for pulling no punches and giving the reader everything in detail the way it happened. Roselli was very independent when it came to promoting himself. He never reached the level of stardom like Sinatra because he wouldn’t cooperate with the Wise guys; and, in those days you had to deal with the Wise guys, to get anyplace in show business. The Wise guys were behind all the top clubs and were very influential with Hollywood Producers, The Wise guys controlled the union (SAG) Screen Actors Guild. If you wanted to get high paid jobs as an entertainer, you had better cooperated with the Big Guys.

tony Boxer

Tony as a young Boxer

L’Idea: Why was your father’s nickname “The torpedo?”

Tony Napoli: When my Father was a young teenager, he was the leader of a neighborhood gang called “The Lorimer Street Boys” In those days there was a Gang in almost every Italian and Irish neighborhood, in the Brooklyn area. The Lorimer Street Gang was located in the Williamsburg section of Brooklyn. To be the leader of a gang you had to fight and beat up the leaders of the other gangs. About three nights a week, boxing trainers used to put on boxing shows at the old Military Armories that were built during World War One for Military training. Folding chairs were used for seating arrangements. They would hold up to 1,000 people in the Armories. The gang leaders would fight against each other. If one gang didn’t like the decision, they would throw the folding chairs into the air to show their disagreement with the official scorer (the referee). When my Father (Jimmy Nap) fought, he always knocked his opponent out with a straight right hand. That’s how he got the nickname “Torpedo.”

L’Idea: You present your father as a perfect gentleman, a great father and at the same time an assassin and a made man. How do you feel that can be possible and how does a person involved in such a complicated life manages to retain his human side?

Tony Napoli: When my father was a young man, at between 16 and 20 years old, he wanted to be like the guys who were always dressed up in suits and ties, wearing Fedora hats. He didn’t want to work as a bricklayer like his father was. As he grew older, he managed to get involved with the Wise guys by being one of their collectors and becoming a strike buster to discourage laborers not to strike by using bats and crowbars to beat them with. He worked for the companies who didn’t want to have their men striking. It was at a young age when he was considered an assassin and a bully. After getting out of jail in 1945, when he was 34 years old, he came back to my mother and turned over a new leaf. My mother took him back because he showed her a sense of responsibility to support the family. He got involved in the Numbers racket, which in those days was considered non-violent as a business. She saw him get respect from clean-cut-looking men; some he met in jail. My mother was only concerned about keeping the family together. She allowed my father to travel all over the country to do his business for all five organized crime families in the New York Area. My mother was not familiar with that part of my father’s life. She only saw in him a business man earning money, and lots of it, for people he called investors. At 34 years old my father was considered by those men in his way of life a standup guy with respect, integrity, dignity and honor. A man they could count on to give them a fair shake from their investments in his gambling enterprises all over the country. My father changed his ways from being a bully and Assassin for love of his immediate family and a great love for my mother, like I changed my ways from being a bully and Alcoholic when I found Sobriety.

L’Idea: In one of your chapters you seem to show a lot of anger at Giuliani. Could you explain why it is so?

Tony Napoli: In Chapter 27 of my book, I denounce Rudy Giuliani as a hypocrite. He tried to get me to talk against my father in the way he makes a living, knowing that his Uncle was Mob connected. Giuliani convinced President Reagan to send him to the New York Area as a US Marshall to infiltrate into the five Organized Crime families. By doing so, he was to be considered a crime buster, when all the while Giuliani was politically minded. He wanted to show the Government he would even lock up his own mother and father if he had to, and gain recognition as a future GOP candidate for a high elective office, with the backing of the Republic party, and gain the NY votes when he finally decided the right time to run for Mayor. Giuliani is Sicilian, and most of his relatives came from the Sicilian Mafia in Sicily. When I was indicted in 1985 on the RICO act and Giuliani was the US Attorney, the key witness against me in court told the jury that he was one of the gang that shot and killed a federal judge in Texas. He was sentenced to life in prison in Lewisburg Penitentiary, in Pennsylvania. He said that Rudy Giuliani offered him $30,000.00 to testify against me and he would get a reduced sentence. I was finally acquitted and when I was walking out of the courtroom, Giuliani said to me “I’ll get you the next time, Napoli”  I thought how can he possibly make such an outrageous deal with a scumbag who killed a federal Judge just to put me away for gambling. I was facing 25 years in jail before I was acquitted.

Jimmy Nap Napoli

Jimmy “Nap” Napoli

L’Idea: There is a movie being produced on your book. Could you tell us something about that?

Tony Napoli: The movie you talk about is called a 20 minute short. About 50 hours of shooting 32 scenes. This pilot was made by me, I paid all expenses so I can present it to the film people in the Film Festivals all over the country. It shows the Highlights of my story played out with real actors who play the main characters in my book. It will also be presented to potential investors leading up to a feature film or TV series. The filmmaker I hired is Hussain Ahmed, from Iraq. He’s also the Director and makes his home in Louisville, Kentucky.

L’Idea: You now have a lot of activities, which you defined as “giving back to society”. Could you tell us what they are?

Tony Napoli: For the past 19 years I’ve been a Veterans Advocate, helping disabled veterans with compensation for their service-connected injuries. I’m also a recovering alcoholic helping other alcoholics find sobriety like I did nineteen years ago, when I left the Mob life behind me. I also help indigent boxers with their medications, when they can’t afford it because they retired from boxing with brain and physical injuries and unable to work to support their selves. The spirit of my father lives on through me.

Hassan.

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Presentato al pubblico come una saga familiare, Hassan è un romanzo che in realtà tratta un argomento molto più complesso, cioè l’amore per la propria terra, che in questo caso è il deserto. È un tema interessante, che l’autrice sviluppa fin dall’inizio del libro con maestria e delicatezza, portandolo, in un crescendo graduale e ben equilibrato, alla scena finale, nella quale il protagonista parla con il deserto, che gli risponde. L’importanza di quest’attaccamento non è solo legata alla classica nostalgia dell’espatriato, pur valido elemento che non stanca mai di essere riesaminato, ma anche all’amore sconfinato dimostrato dai vari personaggi di questa famiglia verso una terra che a uno straniero potrebbe anche apparire scevra di ricchezza, a parte quella ovvia del petrolio, ma che per loro è carica di valori.

Il deserto, quindi, è anch’esso protagonista della storia, quanto lo è il petrolio, del resto. La differenza tra i due elementi è che il petrolio si rivela solamente un subordinato, una materia necessaria affinché non si debba abbandonare questo loro amato deserto, che parla con i propri silenzi.

E attorno a quest’amore s’intessono tutte le relazioni che sono la linfa vitale per la storia di questa famiglia. Vicende d’amore, passioni, infatuazioni, amore filiale e amore materno sono introdotti dall’autrice a un passo celere e ben ritmato, e intessute in una trama fitta e coerente con perizia ed eleganza, tenendo sempre vivo l’interesse del lettore.

La storia scorre dalle dune del deserto all’affascinante Vienna, presentando i componenti di questa famiglia attraverso le loro attività, i loro successi e le loro imperfezioni, offrendo contemporaneamente storie collaterali di una profonda umanità e ammirabile freschezza, dedicando ai dettagli spazio sufficiente per dare una chiara panoramica delle varie situazioni, senza mai annoiare il lettore con pesanti descrizioni. L’effetto finale è un romanzo avvincente che riesce a trasmettere il proprio messaggio di rispetto verso la nostra terra in modo convincente e stimolante.

IL PENSIERO DEL GIORNO

“IL PENSIERO DEL GIORNO”

di Lucia Tumino.

Pubblicato su L’Idea N.15, VOL. II, 2002, NY

Lucia Tumino, fondatrice e Presidente dell’Accademia Internazionale “Contea di Modica”, ha pubblicato recentemente, in una edizione della stessa Accademia, il diario poetico “Il Pensiero del Giorno”, un volume di 403 pagine che raccoglie una poesia per ogni giorno dell’anno 1978. L’idea in sé stessa è abbastanza originale, ma ciò che la rende ancor più singolare è che questi “pensieri”, queste liriche riflettono le trasformazioni intime di una poetessa che riconosce le proprie limitazioni lessicali e non lascia che esse frenino la propria creatività, la propria produzione giornaliera di poesie necessarie alla propria sopravvivenza spirituale. Una poetessa che riconosce il vero scopo della poesia, e cioè la comunicazione dei propri pensieri, delle proprie passioni, dei propri desideri, al di là di una calcolata ricercatezza linguistica rintracciabile in molte opere di “poeti” odierni che non riescono però a farci “sentire” ciò che loro hanno provato.

Lucia Tumino riesce a trasporre efficacemente queste sue sensazioni, come si può determinare dalla breve poesia a titolo “Sensazione!”.

Sento
l’animo avvilito,
sento
il cuore palpitare

Non ha senso
di gioire
nella terra del dolore…!

Un libro che merita l’attenzione dei lettori interessati autenticamente alla poesia pura, sobria, priva di affettazione, ma certamente colma di sensazioni, emozioni, meditazioni e considerazioni che solo poeti incontaminati come Lucia Tumino possono creare.

RACCONTI ALLEGRI E AMARI.

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“RACCONTI ALLEGRI E AMARI”

Nove novelle di Antonio Padovano
Pubblicato su L’IDEA N.61, 1996, NY

Antonio Padovano, conosciuto dai nostri lettori attraverso le sue opere teatrali, una delle quali presentata dal Gruppo Teatrale del Circolo Culturale di Mola e recensita dal sottoscritto in un non troppo lontano passato, ha pubblicato una ottima raccolta di novelle a titolo Racconti Allegri e Amari Presentato nella serie L’Accampamento dei Cigni dell’Editore Barbieri di Manduria (TA). Il simpatico volumetto di 95 pagine merita certamente l’attenzione del pubblico ed anche quella della nostra neonata rubrica.

Questa breve raccolta di nove novelle porta con se una scelta stilistica invidiabile nonché un esemplare costruzione sia dei personaggi esteriori che delle loro intime tribolazioni, ricalcando le orme di altri nostri grandi novellisti.

Il Contratto e Tra i Santi, primo ed ultimo dei racconti, sono pervasi di espressioni dialettali che riescono a richiamare appieno l’ambiente agricolo pugliese. E’ però un uso italianizzato di questo dialetto, come del resto viene spesso a trovarsi nelle conversazioni tra i commercianti, che tentano di impressionare ed intimidire, nascondendosi dietro alla lingua nazionale, i contadini. Il tentativo, da parte dei compratori di evitare al massimo il dialetto incapacitava molto spesso il contadino, relegandolo ad un apparente gradino sociale inferiore con la sua ignoranza, e permettendo al commerciante di abusare della propria vittima, ottenendo risultati insperati.

Molto interessante come Padovano usufruisca di questo linguaggio solo per validare le conversazioni con effetti immediati, senza cadere nella pedanteria del Gadda che usò ed abusò tale prerogativa da crearne un pasticciaccio incredibile.

Il secondo racconto, La Messa Pezzente, tocca un argomento particolarmente insolito con efficacia e scorrevolezza. In Ragazzi Caricaaa!, il tono lieve, dolce, romantico, riporta al corteggiamento d’altri tempi e ripresenta l’immutabile vigore e resistenza dell’amore, che supera qualsiasi ostacolo per arrivare al proprio compimento. Inedia riconduce con l’autorità del linguaggio al mondo verghiano, descrivendo con toni sicuri ed inequivocabili la miseria in cui ‘mba Nunzio e la sua famiglia sono costretti a vivere.

L’apogeo della raccolta viene raggiunto dalla quinta novella, La Cocuzza Invernale, dove la trama, che assume tocchi drammatici, ha reminiscenze delle novelle di De Amicis. Il maestro elementare e la sua difficoltà nel mantenere controllo della sua scolaresca, la descrizione degli alunni, il conflitto interno del protagonista, sono tutti maestralmente impiegati per giustificare il crescendo che porta all’atto finale.

In Una Brutta Avventura si affronta con tatto ma con amara ironia l’effetto negativo della immigrazione su alcuni individui. L’emigrata, in vacanza al paese dalla nuova vita milanese, si sente superiore ai propri compaesani, li giudica ignoranti e viene infastidita dalle loro azioni. Questo rigetto delle proprie radici, questa discriminazione verso i propri conterranei, può essere osservata nelle grandi metropoli di tutto il mondo ed è una delle tante croci che noi emigranti dobbiamo sopportare… Bravo quindi all’autore per essersi accostato a tale argomento.

Il Vestito della Prima Comunione, settimo di questa serie, è la triste cronaca di una madre che si reca in città per acquistare il vestito della prima comunione per la figliola e viene a contatto con la realtà della vita urbana. Scritta con uno stile quasi giornalistico, questa storia risalta per la semplicità dei personaggi e la loro esauriente descrizione.

Micetto è forse la novella che più si stacca dalle altre sia per la struttura che per la trama. Pare una storia alla Edgar Allan Poe con marcati toni italiani e divagazioni con accenni pirandelliani. Nonostante queste impronte non proprio originali, la novella ritiene autenticità dimostrando un proprio singolare sapore. Difatti è l’accurata osservazione e descrizione del proletariato pugliese degli anni cinquanta l’ingrediente principale che identifica l’opera di Antonio Padovano e la qualifica, collocandola fra quelle dei più abili scrittori contemporanei.

SINDROME D’ARTISTA.

“SINDROME D’ARTISTA” di Giovanni Stano.

Pubblicato su L’Idea N.13, VOL. II, 2002,  NY

Valutando l’opera di un pittore poeta, sei sempre assalito dal dubbio che un’arte sia evoluta a discapito dell’altra. Esamini l’opera letteraria e ti accorgi che esiste una disparità con quella pittorica e vorresti sapere se, in effetti, l’arte abbia sofferto perché l’energia creativa si è incanalata principalmente nella stesura dei testi poetici. Tipico esempio di questa dicotomia creativa è Giovanni Stano, autore del gradevole volumetto Sindrome D’Artista. In questo conciso libro di poesie, questo ‘messaggio ai giovani del 2000’, come lui lo definisce, le poesie hanno uno spessore che chiaramente le immagini usate in qualità d’illustrazione non hanno. Non voglio asserire che le figure manchino di una loro individualità od originalità. Quello che blocca la loro efficacia è la legnosità del disegno, che toglie alle composizioni l’armoniosità che palesemente l’artista ha cercato di effigiare. Questa sua rigidità, e l’artista perdoni il messaggero, è forse dovuta ad un’eccessiva tendenza al dettaglio grafico. Molto spesso chi ha queste tendenze soffoca la soavità del proprio prodotto artistico con inutili rifiniture che hanno l’intenzione di ottimizzare il disegno, ma che in realtà gli tolgono l’iniziale spontaneità. Chi legge penserà forse che la mia recensione abbia preso un indirizzo sfavorevole per questo artista, ma posso sinceramente dichiarare Giovanni Stano rimane un pittore più che valido e mi auguro che egli prosegua nella sua produzione artistica. Quello che mi ha sorpreso è riscontrare che le sue poesie hanno una fluidità stilistica ed espressiva ammirabili, e riescono a penetrarti con il loro messaggio di pace e fratellanza. Si riconosce l’artista che ha creato quei quadri, quelle immagini, per la sua sensibilità ed il taglio altamente emotivo. Quello che c’è in più, però, è la naturalezza della realizzazione, non influenzata, in questo caso, da un eccessivo e incompatibile scrupolo estetico. Le sue poesie riescono quindi a sovrastare la sua opera pittorica.

L’importanza del poeta tuttavia non risiede nella sua immediatezza, peraltro molto lodevole, bensì nella profondità del suo messaggio di fratellanza e di solidarietà. In un mondo ormai interessato solo al materialismo, al proprio interesse, riscontrare che esistono ancora individui la cui vita artistica è un continuo atto di fede è una piacevole sorpresa. Giovanni Stano è quindi degno d’ammirazione, sia per la sua attività artistica sia per il suo tentativo di usare questo suo dono per il bene altrui, per riportare un po’ di speranza a questi nostri giovani che molto spesso si sentono emarginati o perlomeno non ‘sintonizzati’ con il flusso della società che li circonda. Nella sua introduzione l’autore difatti dichiara: “Chi è più a rischio, oggi, se non i giovani che, per mancanza di valori, demotivati, non sentiti da questa società per quello che valgono veramente, vanno sempre più alla deriva?  Ma se educati attraverso l’Arte e la Fede si elevano nello spirito, nella mente e nel corpo; si restituisce loro un’autostima che li distingue come valori e che li eleva come persone e come tali nati per vivere e non per morire.”

Che il suo messaggio sia mirato ad un’evangelizzazione del lettore è parimenti esplicito: “È questo il messaggio da dare ai giovani del 2000 per ereditare, domani, un mondo migliore basato soprattutto sulla carità del dare, nutrendo così speranza per un autentico ritorno a Dio.”

Sindrome d’Artista è quindi molto di più di una collezione di poesie illustrata dall’artista. È uno strumento per riportare serenità agli animi tormentati, per convincere il lettore ad un ritorno alla fede attraverso un’introspezione di una pregevole liricità, per riportarlo a Dio.