GIOVANNINO GUARESCHI, AUTORE UNIVERSALE.

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Gli attori Fernandel (Don Camillo) e Gino Cervi (Peppone) con Giovannino Guareschi.

Valutare la complessità dell’opera di Giovannino Guareschi senza esaminare ‘l’uomo Guareschi’ sarebbe non solo errato, ma anche ingiusto. Come spesso accade, lo scrittore è frutto dei suoi tempi e li riflette, sia come contenuto sia come stile e linguaggio. Guareschi fu questo, indubbiamente, ma anche qualcosa in più; scrittore, umorista e polemico per antonomasia, il noto autore emiliano fu un ‘personaggio’ che si meritò l’attenzione della stampa a volte più per le sue controverse campagne contro il comunismo e contro il qualunquismo, le sue due condanne al carcere (una con la condizionale) legate alla sua attività di giornalista, e altre beghe legate alla sua franchezza che non pe le sue tante opere letterarie.

I suoi libri sono stati tradotti in quasi tutte le lingue (anche in Braille), e si stima che egli sia l’autore italiano più tradotto. Come mai, allora, i critici non ne parlano o, addirittura, lo collocano con gli autori minori o poco noti? Questo atteggiamento dei critici è forse legato al contenuto tematico dei suoi libri? Dobbiamo speculare che le peripezie di don Camillo e di Peppone non siano degne di rispetto? Che i suoi ricordi di prigionia (Diario Clandestino), scritti mentre era internato nei campi nazisti in Polonia, non siano sufficientemente carichi di angoscia e struggimento da meritare l’approvazione dei critici? Certamente i suoi libri sono stati apprezzati, anzi amati e profusamente letti dal pubblico italiano, ma di questo i critici hanno sempre evitato di parlare, quasi che il successo di pubblico lo sminuisse, lo rendesse troppo “del popolo” e, quindi, non abbastanza ricercato.
Ma cosa distingue un buono scrittore? Lo stile sciolto e il linguaggio comprensibile ai più, anche quando ricercato, certamente sono dei parametri necessari per renderlo tale, e nessuno può accusare Guareschi di non averli. Umorista fino all’osso, il nostro caro Giovannino ha nei suoi racconti uno stile ammirevole per la sua scioltezza, e chiaramente il suo linguaggio diretto e vivace è stato una delle ragioni del suo successo. C’è di più, però, molto di più.

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Statua di Guareschi al suo paese natale.

Questo dinamico e controverso scrittore ha creato un “Mondo Piccolo”, come lui stesso lo definisce, un vero e proprio archetipo della vita rurale italiana del dopoguerra che ha attirato l’attenzione di una moltitudine di persone in tutte le nazioni, senza distinzione politica, religiosa o di età, rendendolo famoso. Che cosa nasconde all’interno di questo suo mondo che ha ammaliato tante generazioni, sia attraverso i libri sia con i film e la televisione? L’onestà, prima di tutto. I suoi personaggi sono fedeli a se stessi, in qualsiasi frangente; e hanno una coscienza che riesce a valicare ogni barriera morale che la vita pone dinanzi a loro. Don Camillo e Peppone sono come vorremmo che i nostri rappresentanti politici e i nostri preti siano: coraggiosi, onesti, ligi al dovere, interessati alla loro comunità, amanti della vita, fedeli alla loro ideologia, ma non ciecamente, e quindi sempre pronti ad un compromesso quando questo può fare del bene. Che siano anche cocciuti, aggressivi, prevenuti, dispettosi, e con tanti altri difetti, li rende solo più umani e divertenti senza togliere a loro la validità delle loro azioni e controazioni mirate a portare avanti la loro dottrina, comunismo o religione cattolica che sia, a dispetto di tutti ma non di tutto.

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Abbiamo, quindi, un prete-pastore che si preoccupa delle sue pecorelle più che dei canoni religiosi, e usa ceffoni quando necessitano, a dispetto del fatto che la sua religione detta la non violenza. Don Camillo è il sacerdote universale, quello che si meriterebbe il rispetto dei fedeli di tutto il mondo, dall’Equador alla Nigeria, perché egli è un uomo che ha fede e agisce di conseguenza. Non odia il comunismo ma detesta la cieca obbedienza ad esso, proprio come Guareschi fece. Si può addirittura credere che lo scrittore usi Don Camillo per esternare i propri dubbi e le proprie frustrazioni. In un certo senso, Don Camillo e Guareschi sono la stessa persona, perché portano in se delle caratteristiche identiche: l’integrità morale, la polemicità, la voglia di far del bene, la completa assenza di odio verso chi fece loro del male, e più di tutto la schiettezza.
Peppone, da parte sua, è fondamentalmente buono, anche se a lui manca l’istruzione per comprendere appieno tutte le angolazioni della vita e deve ovviare con la scaltrezza. Ma nonostante egli disprezzi il clero, la stima che ha per Don Camillo gli impedisce di odiare l’uomo che ha scelto la via del sacerdozio e sembra, in talune occasioni, che gli sia il migliore amico. Il loro è, dunque, un rapporto di amicizia basato sulla necessità di discutere animatamente, a volte fino al punto di imbestialirsi, ma sempre senza perdere il rispetto dell’amico-avversario, una amicizia in continuo contradditorio ma con due cuori pronti sempre ad unirsi in un proposito comune per il bene del popolo. Vero sacerdote lui, Don Camillo, e vero paladino del proletariato, non obbligatoriamente comunista, Peppone.
Giovannino Guareschi fu un cattolico rigoroso ma non rigido, un uomo di cui tutti rispettavano la moralità anche se non ne condividevano le idee, un uomo che finì in prigione, e addirittura in un lager, pur di non dover compromettere le proprie convinzioni.

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Guareschi mentre legge una storia ai figli….

Il suo convinto e caloroso anticomunismo fecero di Guareschi uno dei più acuti critici del Partito Comunista Italiano, ma i suoi nemici erano di tutti i partiti, perché Guareschi non risparmiava le critiche a nessuno che le meritasse, senza distinzioni. Avere tanti nemici era quasi un motivo di gloria per Guareschi, che giudicava le reazioni dei vari politici verso di lui quasi un riscontro e una conferma della sua giusta posizione.
Conservatore si, ma non reazionario, perlomeno non nella connotazione negativa normalmente assegnata a questo termine, polemico ma non polemista, come venne accusato da tanti, Guareschi portò un vento di freschezza nella letteratura italiana del dopoguerra, spesso eccessivamente intrisa di melanconici turbamenti o di contorsioni mentali; le sue storie, pur essendo italiane fino all’osso, sono in realtà universali e portano un messaggio di fine umorismo e di integrità morale che non trova barriere e può essere compreso e apprezzato in tutto il mondo.

Articolo come apparso su L’Idea Magazine N.4, 2013

Hassan.

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Presentato al pubblico come una saga familiare, Hassan è un romanzo che in realtà tratta un argomento molto più complesso, cioè l’amore per la propria terra, che in questo caso è il deserto. È un tema interessante, che l’autrice sviluppa fin dall’inizio del libro con maestria e delicatezza, portandolo, in un crescendo graduale e ben equilibrato, alla scena finale, nella quale il protagonista parla con il deserto, che gli risponde. L’importanza di quest’attaccamento non è solo legata alla classica nostalgia dell’espatriato, pur valido elemento che non stanca mai di essere riesaminato, ma anche all’amore sconfinato dimostrato dai vari personaggi di questa famiglia verso una terra che a uno straniero potrebbe anche apparire scevra di ricchezza, a parte quella ovvia del petrolio, ma che per loro è carica di valori.

Il deserto, quindi, è anch’esso protagonista della storia, quanto lo è il petrolio, del resto. La differenza tra i due elementi è che il petrolio si rivela solamente un subordinato, una materia necessaria affinché non si debba abbandonare questo loro amato deserto, che parla con i propri silenzi.

E attorno a quest’amore s’intessono tutte le relazioni che sono la linfa vitale per la storia di questa famiglia. Vicende d’amore, passioni, infatuazioni, amore filiale e amore materno sono introdotti dall’autrice a un passo celere e ben ritmato, e intessute in una trama fitta e coerente con perizia ed eleganza, tenendo sempre vivo l’interesse del lettore.

La storia scorre dalle dune del deserto all’affascinante Vienna, presentando i componenti di questa famiglia attraverso le loro attività, i loro successi e le loro imperfezioni, offrendo contemporaneamente storie collaterali di una profonda umanità e ammirabile freschezza, dedicando ai dettagli spazio sufficiente per dare una chiara panoramica delle varie situazioni, senza mai annoiare il lettore con pesanti descrizioni. L’effetto finale è un romanzo avvincente che riesce a trasmettere il proprio messaggio di rispetto verso la nostra terra in modo convincente e stimolante.

LA PELLE DEL LUPO.

la pelle del lupo“LA PELLE DEL LUPO” di Giulia Poli Disanto

Pubblicato su L’Idea N.25, VOL. II, 2002,  NY

   Il viaggio continua per la brava poetessa Giulia Poli Disanto, vincitrice del prestigioso Premio Giornalistico L’IDEA NEL MONDO 2002, con un libro di poesie che è in realtà un’analisi del deterioramento dei valori spirituali della società odierna.

     Le immagini scorrono vivide ed intense, come se avessero vita propria, donando alle liriche una compattezza stilistica che è solo minacciata nella loro integrità dalla possibile erronea interpretazione del lettore, la cui fantasia in questo caso è comprensibilmente stimolata.

     Non è che la poetessa abbia scelto il discutibile percorso di tanti poeti o pseudo-poeti che ricercano parole nel dizionario o nel rimario e le scelgono proprio sulla base della loro difficoltà d’intendimento o sulla loro eccezionalità. Il modo di esprimersi di Giulia Poli Disanto è terso, esplicito e certamente non sofisticato. Il significato d’ogni verso è inequivocabile, ma l’insieme delle immagini è talora complesso e può dimostrarsi al lettore medio un po’ difficile da interpretare, quasi come certi dipinti contemporanei che riescono chiari solo dopo la spiegazione dell’artista o le disquisizioni di un critico.

     Se la poetessa ha mirato ad un pubblico competente, il libro è ottimo e merita successo ed approvazione da parte dei critici. Qualora lei avesse indirizzato questa sua ultima opera ad un vasto pubblico, con tutte le sue possibili limitazioni linguistiche, forse ha alzato troppo il tiro. In questo caso il volume che, data la validità dell’opera, sono sicuro sarà ristampato in una seconda edizione in un prossimo futuro, sarà innegabilmente più appetibile per questa fascia di mercato con delle note dell’autore o delle citazioni esplicative. Un’introduzione, che ritengo in questo caso necessaria,  potrebbe darle l’opportunità di introdurre tali chiarimenti, che permetterebbero di comprendere appieno il contenuto di queste magnifiche poesie, la cui espressione semantica associativa è forse un tantino troppo complessa per il lettore comune o non preparato.

    L’Utero di Dio è un eccellente libro di poesie, che conferma la validità lirica e stilistica di Giulia Poli Disanto, esponendo alla mercé del lettore l’animo delicato e sensibile della poetessa, nonché la sua profonda spiritualità e benevolenza di donna, caratteristiche che la distinguono dai molti e le fanno meritare un posto d’onore nell’ambito dei poeti contemporanei italiani.

WATKINS GLEN.

books2     “WATKINS GLEN”

di Philippe Defechereux.

Pubblicato su L’IDEA N.71,
Autunno 1998, NY

Il libro di Philippe Defechereux, WATKINS GLEN 1948-1952 The Definitive Illustrated History, è scritto interamente in inglese e tratta della nascita e dello sviluppo delle corse su strada negli USA. Il lettore si potrà chiedere a questo punto la ragione che ha spinto la nostra rivista, contro ogni apparente logica redazionale, a recensire tale volume. A proposito della lingua, il libro non è sfortunatamente ancora reperibile in italiano, anche se l’autore è al momento in trattative con un editore in tal senso; la validità dell’argomento trattato però prevarica questa e qualsiasi altra considerazione. La nascita della prima corsa su strada nel villaggio di Watkins Glen, difatti, implica e coinvolge l’apparizione di varie marche automobilistiche italiane negli USA ed il loro ripetuto successo, sia nelle corse che nel cuore del pubblico americano. Proprio qui nacquero le immagini elitarie della Ferrari e della Maserati. È in questo piccolo villaggio della parte settentrionale dello stato di New York che le FIAT e le Alfa Romeo si dimostrarono valide macchine da strada e le varie OSCA, Cisitalia, SIATA, Nardi, Italmeccanica e Giaur ebbero l’opportunità di lasciare tracce visibili della loro breve e meteorica presenza nel mondo delle corse ed automobilistico in genere. Nel lontano 1948 le corse su strada erano sconosciute all’americano comune, che associava il vocabolo ‘corsa’ con i classici circuiti ovali, nei quali sia l’industria che le varie associazioni automobilistiche statunitensi riconoscevano l’essenza di tale competizione. La geniale creazione di Cameron Argetsinger della prima corsa che ricalcasse lo stile europeo, sia nelle regole che nell’impostazione, fu chiaramente controcorrente. Egli affrontò infatti il rischio, divenuto poi realtà, di incorrere nelle ire dell’associazione Sport Cars Club of America, allora responsabile delle corse negli USA. Il suo fu dunque un atto di coraggio che permise di porre le basi per inserire anche gli USA nel circuito internazionale di Formula Uno. Non fu certamente un progetto semplice né ebbe pochi intoppi. Mentre all’inizio la SCCA lo appoggiò completamente, l’insistenza di Argetsinger nel cercare di modificare la corsa di Watkins Glen, prima del suo tipo negli USA, aprendo le porte ai piloti professionisti e rendendola una autentica corsa di “Grand Prix” incontrò la resistenza dei vecchi soci del SCCA. Essi infatti volevano mantenere la corsa su strada uno sport d’élite, accessibile solo a pochi, ricchi dilettanti. Inoltre, un incidente nella corsa del 1952, che fece molti feriti e costò la vita ad un bambino italoamericano portò temporaneamente lo scompiglio nel campo delle corse e quasi designò la fine di questo tipo di attività. Nel 1953 le autorità locali negarono agli organizzatori il permesso di utilizzare le strade di proprietà dello stato. Con questa decisione si voleva mettere i promotori di tale corse, con l’esclusione di Sebring, nata nel 1950 su un campo d’aviazione della Florida, nell’impossibilità di continuare. Quello che avvenne invece fu il classico miracolo, che oltretutto permise al sogno di Argetsinger di avverarsi: le varie cittadine nelle quali questa tradizione europea era stata accettata e resa parte integrante ed essenziale della loro vita si rimboccarono le maniche, autotassandosi e costruendo in breve tempo piste con la stessa funzione e difficoltà dei circuiti su strada. Si erano create di conseguenza tutte le premesse per rendere queste corse dei Gran Premi accettabili dall’associazione internazionale (Federazione Internazionale Automobilistica) ed inserirle ufficialmente nell’elenco dei loro circuiti. Queste corse su strada, delle quali Watkins Glen fu la prima, avevano inizialmente usurpato il titolo di Grand Prix, che era stato usato la prima volta nel 1906 dai francesi ed implicava , come si può desumere dal nome stesso, un munifico premio in denaro. Quando la F.I.A. si rese conto che la situazione non era controllabile ed ogni nuova corsa su strada, pur non avendo né i requisiti né le autorizzazioni necessarie, veniva denominata Grand Prix, corse al riparo. La F.I.A. definì queste corse di “Formula Uno”, depositandone, nel 1950 all’ufficio internazionale dei marchi, il nome e ritenendone conseguentemente il diritto d’uso. Solo nel 1961 Watkins Glen, che nel frattempo aveva ottenuto successo e riconoscimento da parte del pubblico e dei piloti professionisti internazionali, a totale discapito del rapporto con lo S.C.C.A., riuscì ad ottenere il titolo ufficiale di circuito di Formula Uno, diventando il terzo Gran Premio Automobilistico statunitense ufficiale per la F.I.A. Una storia esaltante, quindi, che grazie al limpido stile giornalistico di Defechereux prende vita in questo mirabile volume, che è inoltre d’una singolarità incredibile grazie alle sue 220 illustrazioni, 150 delle quali mai pubblicate finora, molte delle quali a colori. Se si tiene presente che in quegli anni i fotografi professionisti usavano il bianco e nero, queste fotografie, frutto di una ricerca che ha preso una svolta fortuita, sono una primizia da non perdere. Più di tutto ci ha impressionato la sostanziale influenza italiana su questi eventi. Non solo le grandi e piccole marche automobilistiche con i loro bolidi, ma anche i piloti ai quali i primi partecipanti di Watkins Glen facevano riferimento e dei quali avevano immensa stima, i nostri Nuvolari, Ascari, Villoresi, Chinetti, Bracco, Bonetto, Taruffi, Marzotto e tanti altri. Ma non erano esclusivamente i nostri campioni l’oggetto di considerazione dei neofiti nuovayorchesi. Nel cuore di questi novelli assi del volante c’era anche e soprattutto l’aspirazione di creare una corsa che potesse avere il prestigio di quelle italiane, come le conosciutissime Mille Miglia, Targa Florio, Coppa D’Oro delle Dolomiti, Giro di Sicilia o Circuito di Senigallia. Non si deve dimenticare inoltre quanto i nostri carrozzieri e disegnatori abbiano ispirato ed a volte dominato il campo delle auto da corsa in quegli anni. Nemmeno l’autore se ne dimentica e vi sono molti riferimenti ai nostri Figoni e Fallaschi, Vignale, Touring nonché l’italoamericano Farago che rendono questo libro ancor più interessante per un lettore italiano. Del resto le corse automobilistiche sono oggi lo sport più seguito da noi italiani, dopo il calcio, ed un volume che riesce a proporre un completo e stimolante scenario della nascita della Formula Uno negli USA ed allo stesso tempo ci offre una lunga serie di informazioni sulla provenienza delle varie marche italiane, sulle caratteristiche dei nostri piloti e sulla qualità dei nostri “designers” non può che ricevere il nostro entusiastico consenso.

LEGGENDA DI COLLESPADA. [L’Idea Magazine, 2001]

Di Tiziano Thomas Dossena

“LEGGENDA DI COLLESPADA”

di Federico Tosti (1898-2001)

Nel prologo di una intervista eseguita a Federico Tosti quand’egli aveva la venerata età di 94 anni, Nicola Venanzi affermò: “Federico vive solo in quell’ambiente (si riferisce alla sua abitazione estiva di Collespada) ricco di ricordi, di immagini, di presenze lontane, di letture, di composizioni poetiche che non lo fanno esser solo. Nella sua meravigliosa fantasia sa crearsi un mondo ideale, come quello incantato di boschi e di fate che descrive nelle sue numerose poesie. E il suo cuore di fanciullo vibra di misteriose armonie”.

Debbo riconoscere che questo suo commento era più che azzeccato e che anch’io provai sensazioni della stessa natura quand’incontrai Federico nella sua famosa “Baita Rossa”, a Collespada, nel 1998.

È per questo che la recente partenza da questo mondo terreno di Federico Tosti, poeta, guida alpina (fu uno dei soci fondatori del CAI), amico e, tra le tante altre attività, anche nostro collaboratore, ci ha colpito ancor più.

Con la sua scomparsa si è conclusa un’epoca e non si può non esserne coinvolti.

Federico era per molti noi della redazione un “punto di riferimento” che ci sembrava non potesse mai mancare. Era un “uomo di alti valori morali” che viveva seguendo ideali poetici ed umani che ormai ben pochi hanno la sensibilità o il coraggio di abbracciare. Era la “speranza” tradotta in realtà che ci potesse essere gente di questo stampo e che non esisteva solo nei romanzi romantici. Era la “prova vivente” che il legame tra la natura e l’uomo può mantenerlo incontaminato anche nell’esistenza caotica di oggi. Era il “poeta” per antonomasia, con la sua esigenza di esprimere continuamente le sue emozioni in rima. Era uno di quegli uomini, come disse Venanzi, “in cui la vita interiore sembra imporsi decisamente su quella fisica, sottoposta alle leggi del tempo”.

Federico Tosti sarà sempre nel nostro cuore.

Nato a Roma il 22 ottobre 1898, noto poeta dialettale in romanesco (tra i suoi amici intimi annoverava Aldo Fabrizi), Tosti si sentì sempre “nell’anima e nei sentimenti” abruzzese.

Collespada, reso famoso dai suoi racconti, dov’era la casa dei nonni e dove visse gran parte della sua gioventù, oggi in provincia di Rieti, era difatti in territorio aquilano e venne trasferito al Lazio nel ventennio fascista.

“Questa prima esperienza, a contatto con una natura viva e talvolta persino selvaggia, segnò la personalità del giovane che, anche dopo il suo trasferimento nella capitale, continuò ad amare la montagna, i suoi paesaggi, la sua vita semplice e – allo stesso tempo—caratterizzata da quotidiani sacrifici. L’amore per la montagna, che il lettore ritroverà… costituisce una sorta di linea comune, o, per meglio dire, una tendenza che corre lungo tutta la vasta produzione del Tosti: racconti, prose liriche, novellette, poesie in lingua e dialetto; un amore, peraltro, che egli coltivò non soltanto in letteratura, come sogno, bensì pure nella vita concreta, facendosi guida alpina ed escursionista, sino a meritare la “Stella al Merito” della montagna per aver salvato alcune vite umane e per aver evitato una catastrofe. Ed è lo stesso amore, inoltre, che lo indusse negli anni a considerarsi semplicemente un “contadino”, malgrado i quarantadue anni trascorsi a Roma” (da “I Racconti di Collespada”).

Tra le sue molte opere, ricordiamo:

L’ometto e la montagna, poesie in dialetto romanesco;

Fiori arpini, poesie in dialetto romanesco;

La casa su la montagna, novelle, racconti, bozzetti, in lingua;

Maitardi, amico partigiano ucciso dai tedeschi (in memoria);

Versi vagabondi, poesie in lingua;

Li scalini der cèlo, poesie in dialetto romanesco;

I fiori del giardino, antologia di novelle, racconti e poesie;

Artari sotto le stelle, poesie in romanesco sulle montagne

L’ISOLA CHE C’E`.

books3“L’ISOLA CHE C’E`”

di Miriam Bendia.

Pubblicato su L’Idea N.15, VOL. II, 2002, NY

Edizioni Hoepli

“Questa non è una novella. E neppure un romanzo d’avventure. Quella che vi sto per raccontare è solo una favola che non significa nulla, narrata da un idiota pieno di vento e di furia.

Inizia con un uomo che attraversa il mondo e finisce con un’isola che se ne sta lì, quieta, al centro del suo mare. L’isola si chiama Tiomàn. L’uomo non si sa.”

Ecco la breve presentazione di L’isola che c’è da parte dell’autrice, la simpaticissima Miriam Bendìa, di Roma, che offre questa sua “favola” nelle Edizioni Pixel Jouvence.

Dobbiamo crederle? Certamente questo breve testo non ha le caratteristiche di un romanzo di avventure, ma forse la classificazione di novella sarebbe più che appropriata. Nel racconto non vi sono animali o cose inanimate che parlano o che agiscono con atteggiamento indipendente. Perché allora l’autrice sente la necessità di specificare che è solo una favola? Forse perché il protagonista abbraccia la possibilità che una leggenda locale sia verificabile, se non nei fatti perlomeno nel profondo del suo animo provato da una esperienza ineguagliabile?

È manifesta fin dalle prime righe l’intenzione di Bendìa di distillare un poco delle filosofie orientali per creare un’essenza che dia un carattere, un’intonazione al ritmo stilistico del libro, che acquista così una trascinante liricità.

L’isola che c’è è una sorpresa piacevole nel mondo d’oggi, dove molto spesso gli autori si preoccupano di scioccarci più che di fare appello ai nostri istinti naturalistici o ai nostri sentimenti. La paura di essere paragonato o di essere identificato come neoromantico frena molti scrittori che preferiscono rischiare meno e colpire il lettore con narrazioni intrise di contorsioni psicologiche e di equilibrismi linguistici che dovrebbero intimidirlo, ma che molto spesso lo stancano e nulla più. Bendìa scommette invece sulla sensibilità del lettore e ci offre uno stile elegante senza estreme fioriture lessicali che riesce a raggiungere il più intimo anfratto dell’animo senza scombussolarlo. Una discrezione che le permette di esporre tutti i dubbi esistenziali del protagonista, emozioni che certamente molti di noi del resto abbiamo conosciuto, e di fargli cercare un responso negli eventi che lo portano ad esplorare l’isola ed il più affascinante elemento di questa oasi lontana dalla civiltà, la Principessa Timida, senza prevaricare sul taglio suggestivo dell’avventura di questo innominato giovane occidentale.

Il risultato è una gradevole storia che non ha grosse pretese tematiche, ma che riesce a rispecchiare in pieno l’interesse e l’esperienza dell’autrice nel lontano oriente e nelle sue filosofie.

Come asserisce Miriam Bendìa nella sua dedica personale, questo è un libro che incanta chi lo sa ascoltare!

LA FIERA DEL LEVANTE.

“LA FIERA DEL LEVANTE”

 

In occasione del sessantesimo anniversario della Fiera del Levante è stato pubblicato a Bari un volume a titolo La Fiera del Levante Bari e la Puglia, edito da Giuseppe Stucci. Il libro si presenta come un ibrido tra un testimoniale ed un catalogo di referenza, in una piacevole edizione fuori misura. Nella prima sezione, intitolata Il Protagonismo degli Enti Fondatori,vari uomini politici spiegano la funzione della Fiera in relazione ai vari Enti che la fondarono ed alla regione circostante. Nella seconda parte, divisa anch’essa in due sezioni,La Storia dal primo ‘900 ai giorni nostri e I primi due Presidenti, si toccano gli eventi storici che caratterizzarono la nascita e lo sviluppo della Fiera del Levante nell’ambito del sistema fieristico nazionale. La terza parte, Bari e la Fiera fra storia e costume, copre gli aspetti storico-economici e di costume che definiscono la validità e potenzialità di espansione di questa riconosciuta manifestazione commerciale. Le fotografie, che illustrano le varie tappe della crescita della Fiera del Levante, della città di Bari e della regione, sono tutte d’epoca e in bianco e nero. Gli articoli sono di ottima qualità e tra essi spicca Se il barese non commercia muore, nel quale Lino Patruno rivisita la nascita della Fiera come una naturale estrusione del carattere barese (E dove poteva esserci la Fiera del Levante se non in una città che è tutta una grande fiera anch’essa?). Interessante anche il saggio di Raffaele Nigro, Viaggiando nel paese degli inventori. In esso l’autore definisce in modo inusuale la sua visione della Fiera: …è una festa della curiosità e della meraviglia, il viaggio di Alice nel mondo dei sogni… l’imbocco di un labirinto dove una società affamata di oggetti cerca il filo che la porti verso la felicità totale, il luogo dove lo spirito malato dell’uomo contemporanero crede di trovare l’appagamento, la pacificazione interiore, il linimento alle ferite esistenziali…una Disneyland casuale… Un ottimo volume, quindi, sia per il contenuto che per la presentazione grafica, che però a volte pare frutto degli anni sessanta a causa di un eccessivo ingrandimento di fotografie d’epoca che non riescono a ritenere nitidezza in tale dimensione. Unica discutibile scelta, chiaramente dettata da fattori economici, è stata quella di creare uno pseudo Osservatorio Economico, che è in realtà solo una sezione pubblicitaria. Che tale sezione, peraltro a colori e in alcuni casi anche interessante, sia mirata a coprire le indiscutibili, ingenti spese di stampa, lo si può anche capire, ma certamente non giustificare quando si osserva che il costo al pubblico del volume è di Lire 120.000 (circa 73 dollari al cambio odierno).

CIAO, AMERICA! An Italian Discovers the U.S.

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“CIAO, AMERICA!  An Italian Discovers the U.S.”

di Beppe Severgnini

Pubblicato su L’Idea N.16, Vol.II, 2004, NY

There are times, when reading a book for the sole purpose of writing a review, that, although well written and interesting in its own subject matter, its evaluation may result as a burden of some sort. Reading CIAO AMERICA! was not one of these cases. Light-hearted and somewhat facetious, this book is the ideal reading for an Italian who has immigrated to USA.

As the author clearly states, “This is the story of an Italian who, with his family, was happy in a house in America”. His comments arise from mere reflections of the differences between the American and the Italian society. They develop, though, into intelligent clarifications of the apparent reasons, obviously as perceived by Beppe Severgnini, behind these dissimilarities. The author has clearly researched the origins of many of our American customs and he seems to have a profound knowledge of our way of life and what seems to trigger its changes.

I do believe, though, that the musings of this celebrated journalist and writer can only be savored to the fullest if you have lived on both sides of the Atlantic. Capturing the finesse of some of the comments may be difficult, unless you can relate to his European upbringing, and may produce some irritation in the unprepared reader, who could interpret some remarks as criticisms.

If you have even a minute exposure to the Italian way of life of today, though, his evaluations are going to be hilarious and to the point. Severgnini touches all the topics imaginable in a one-year diary of his life in Washington D.C., focusing on the small things of life, from the excessive ice in the soda to the supermarkets, the celebration of the Fourth of July, the way people drive, tag sales, garbage pick up and, naturally, bureaucracy.

The amazement of this journalist at the ease that the American society has created around the acquisition of the basic requirements of everyday living can be paralleled to the reaction of a child that encounters an elephant or a giraffe at the zoological garden for the first time. He knows that what he has in front of his eyes is really happening, but he can’t cease to be in awe and skepticism about it.

This book touches the very heart of the mechanism that makes this great nation as such, justly as perceived by an outsider. If you are not going to smile, laugh and feel proud of being an American by the end of this book, I can safely assume that you probably did not like Charlie Chaplin and Lucille Ball either.

Severgnini, Beppe, CIAO, AMERICA!  An Italian Discovers the U.S., Broadway Books, NY, 2002  (English)

Severgnini, Beppe, CIAO, AMERICA!, R.C.S. Libri & Grandi Opere S.p.A., Milan, 1995  (Italian)

AMERICAN ECLIPSES.

“American Eclipses”

di Flavia Pankiewitz

Pubblicato su L’Idea N.14, VOL. II, 2002, NY

Molto spesso, nell’osservare un dipinto o nel leggere una poesia, s’intuisce il sesso della mente creatrice attraverso l’analisi dei vari dettagli. Siano essi i colori pastello, fusi senza estremi contrasti, o la scelta del tema (fiori, paesaggi o simbolismi eterei) dei loro quadri oppure la sensibilità del contenuto lirico appaiata ad uno stile particolare che traspira di tocchi prettamente femminili, questi prodotti sono riconosciuti per opere caratteristiche del mondo della donna; anche gli estremi, a volte sgradevoli, versi di alcune femministe sono chiaramente riconoscibili, forse per una ragione opposta, vale a dire un’assenza di delicatezza.

Non è una regola, ma un’osservazione che trova molto spesso riscontro nella realtà della vita artistica.

Il libro di poesie American Eclipses, di Flavia Pankiewicz, non rientra in queste generalizzazioni. Tradotto a fronte da Peter Carravetta con una metodologia ferrea che ha saputo ritenere il gusto della creazione originale, questa raccolta di poesie, la prima dell’autrice, è un canto d’amore per New York. Non ci sono sdolcinature o ricercatezze da esteta, bensì uno stile immediato, conciso, pungente, con un ritmo tutto suo, frenetico ma non irritante. Le sue poesie sono paragonabili a dei piccoli quadretti espressionisti, con la loro potenza che non è rintracciabile ad un’eccessiva descrizione grafica, bensì all’effetto d’insieme ottenuto attraverso un particolare accostamento delle masse cromatiche. Così le sue parole scorrono in un effluvio a volte apparentemente irrazionale, quasi come fossero commenti indipendenti dal resto della poesia, ma sempre riescono nella loro amalgama a dare al lettore un’impressione ben chiara di ciò che il poeta ha provato. Le parole sono immagini e le immagini sensazioni.

La prima parte del libro, NEW YORK 549 DAYS AND 18 MINUTES, esprime la passione che il poeta sente per questa città universale. I versi sono impregnati di ammirazione, a volte paiono confinare con l’adorazione:

…Manhattan toglie il respiro.

È bella, d’una bellezza inspiegabile

L’inconsapevolezza della vita… ( pag.16)

e poi ancora:

…E il Tappan Zee e il George Washington Bridge,

Dileguati nelle foschie della pioggia,

Ricompaiono

Con profili di fiammelle

Che scandiscono traiettorie nel buio.

Perfetto, troppo perfetto… (pag.30)

Nella seconda sezione, American Eclipses, che presta il nome al libro, Pankiewicz si vendica di quello che a lei appare un tradimento, ma che è in realtà la realizzazione della possibile brutalità della vita in una grande metropoli. I titoli delle poesie dicono molto: Trappole, Belve Nel Tempo, Esodo, ecc.. La poesia Veleno è forse la più eloquente al proposito:

Ditemi chi ha versato un filtro magico nel mio vino,

chi ha trasformato in una visione di sogno

il profilo eclettico di New York.

Voglio sapere chi ha acceso i lumini luccicanti

In tutte le strade del Village,

chi ha ricoperto di rose rosse i tavoli dei ristoranti.

Fatemi conoscere l’autore della colonna sonora,

il regista,

chi ha scritto i testi.

Ditemi chi ha scelto i costumi

E il cielo di cartone

E chi ha acceso una lampadina elettrica dietro la luna.

E per favore, per favore,

fate che io sappia il nome, il nome,

di chi ha portato il veleno sulla scena.

Veleno mortale nel mio cibo.

Veleno che ha gelato il sangue.

Membra paralizzate.

Ibernazione della mente e del cuore.

Un istante. È bastato un istante.

Veleno.

La metamorfosi, la realizzazione, la rinascita del rapporto con New York sono i passaggi obbligatori di questa sezione che termina con la poesia omonima, dalla quale mi pare indispensabile offrivi questo passaggio:

E sentirò con gioia la morsa del sole

in estati torride,

senza bruciarmi.

E il buio non sarà un tunnel a senso unico

Perché tutte le direzioni condurranno alla luce.

Nulla può più temere

Chi ha attraversato un’eclissi.

Un’eclissi è dunque la descrizione di questo rinnovamento dei propri sentimenti verso questa megalopoli. Parola ben dosata che ci rammenta che tutte le passioni affrontano, prima o poi, una fase di oscuramento, di necessaria trasformazione o evoluzione, dalla quale si esce con una nuova visuale, una nuova concezione che ci permette di continuare la nostra vita, altrimenti disturbata dall’eccessivo trasporto che questa passione suscita.

Un libro energico nel contenuto ed esplicito nel messaggio, con uno stile sciolto e gradevole che certamente conquisterà i nostri lettori. Congratulazioni da parte di tutta la redazione alla collega Pankiewicz per questa sua nuova pubblicazione.

Flavia Pankiewicz ha al suo attivo due altri volumi, Cavalli e Cavalieri (1988) e Border to Border (1988).

Le Viziose Avversioni.

Le Viziose Avversioni di Alfredo de Palchi.
Pubblicato su L’Idea N.74, 1999, NY

Il suo linguaggio è fluido, ma scomodo o addirittura ostico a chi non ha dimestichezza con l’erotismo in poesia. Mi perdoni l’autore se traggo un parallelo estetico alle opere di Bruegel, che nella loro immediatezza possono disturbare l’osservatore. Non tutti i lettori, difatti, potranno apprezzare la spontaneità espressiva di Alfredo de Palchi anche se avvezzi all’eros poetico.

Il suo espressionismo lirico è di un’intensità per cui il lettore viene travolto dalle parole in un turbinio di sensazioni che perlomeno gli confondono i sensi e certamente possono deludere od irritare chi è alla ricerca di romanticheria.

Quello che non si trova però è la volgarità gratuita, l’erotismo che rasenta la pornografia o quello mirato a provocare eccitamenti nel lettore. Se provocazioni vi sono, e questo è indiscutibile, queste fioriscono nella inevitabilità dello sfogo artistico di questo grande maestro della penna che ha scelto di esprimere le proprie sensazioni, i propri desideri e dubbi così come gli si sono presentati, senza cercare di attenuarne né l’impeto né l’intensità.

Trovo singolare che, in un libro di poesie a sfondo erotico, quelle che mi hanno colpito di più per la loro scorrevolezza e per il loro immediatezza fanno riferimento non all’atto sessuale, ma bensì al desiderio, alla mancanza fisica della compagna, ai rimpianti, all’inquietudine che sorge nei rapporti prettamente sessuali.

Le sue divagazioni erotiche diventano quindi un’analisi del proprio conflitto, nato da un’atavica necessità di unirsi fisicamente che non conosce moralità o regole. Il suo rapporto con il sesso è tormentato, assillato da immagini spietate e metafore realistiche, ma deliberatamente non sempre gradevoli.

 

Le Viziose Avversioni

è quindi un titolo più che appropriato per quest’ottimo libro di poesie, edito dalla casa editrice XENOS BOOKS con traduzione a frontespizio.

 

Considera

quello che ti giustifica fuori posto

con tante menzogne e ti contatta

con una realtà che fingi di capire

ma solo pisoli la sera addosso un sedile;

che aspetto io, seduto qui,

alito sporco, occhi miopi che pungono l’oscuro,

nello stretto passaggio tra le panchine—

corro verso la tua risata

che mi spalanca la porta.

(Le Viziose Avversioni, pag.98)